16 luglio 2007

Italia, i romanzi non son morti ma cercano stili

di Bianca Garavelli
Non si può negare, il romanzo in Italia è sempre stato un genere debole. Non ha vissuto la stagione d'oro della Francia dell'Ottocento, con l'unica sofferta grande prova manzoniana de I promessi sposi. Tuttavia può vantare ottimi tentativi di rimonta nel secondo Novecento, e qualche bestseller internazionale ha fatto parlare di noi Italiani in tutto il mondo, come Il nome della rosa e Va' dove ti porta il cuore. Proprio quest'ultimo libro è al centro di una piccola grande svolta nella narrativa italiana, uscito com'è nel 1994, anno fatidico in cui hanno visto la luce altri notevoli successi che hanno aperto la strada al filone giovanile, Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Brizzi e Tutti giù per terra di Culicchia. Una svolta che continua la direzione già presa nel 1980, proprio l'anno del clamoroso successo de «Il nome della rosa», e in cui un nuovo pubblico insperato, quello dei liceali e dei giovanissimi, si schiudeva all'editoria italiana. Alla luce di quest'analisi già ben marcata, a che punto siamo adesso tenta di spiegarcelo un giovane docente dell'Università di Pisa, Alberto Casadei, che in «Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo» appena uscito da Il Mulino (pagine 306, euro 25,00), traccia una mappa esaustiva non solo delle tendenze narrative dei romanzieri italiani, ma anche dei loro rapporti col pubblico e con le esigenze sempre più commerciali dell'editoria. Infatti se non c'è più stile (perché ci sono molti, anzi troppi stili, tutti accettabili) e non c'è più tradizione nelle pagine dei nostri romanzieri (perché la neo-avanguardia ha decretato la morte della forma tradizionale), è per la perdita della capacità della letteratura di interpretare la realtà, a sua volta causata dal distacco dal nostro passato umanistico. Questo in nome di una «mobilizzazione dei consumi» dilagata negli anni Ottanta e di una drammatica separazione fra realtà e «reale» romanzesco. L'ipotesi di Casadei è provocatoria e insieme, in parte, ottimista: il romanzo non è affatto morto, ma è comunque piuttosto malato, e per guarire dovrebbe riacquistare valore interpretativo, così come il romanziere dovrebbe recuperare un ruolo nel tessuto sociale, e soprattutto di liberarsi dalle maglie della logica editoriale, che è ormai sinonimo di commerciale. Lo provano alcuni casi interessanti degli ultimi anni, ottimi tentativi di usare la tradizione adattandola alla modernità, come il capolavoro assoluto di Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, ma anche la grande parabola sulla Storia inventata da Elsa Morante. E ancora due nuove grandi forme nate in tempi più recenti, che testimoniano la vitalità del genere ma insieme la sua debolezza, perché asservite entrambe alla logica del best seller: il «romanzo-esercizio» fondato sull'alibi del «doppio livello» di lettura, con capostipite «Il nome della rosa», e il «romanzo-confessione», che ha per capostipite Altri libertini di Tondelli, fondato sulla fiducia che il romanzo possa essere, se non l'interprete, almeno il resoconto fedele di un disagio diffuso nella società.
«Avvenire» del 28 giugno 2007

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