di Roberto Mussapi
Dioniso è uno degli dèi più complessi, affascinanti e misteriosi della religione greca. Dio della vite e quindi del vino, è vitale, creante, un potente generatore e trasformatore dell’essere, di cui le icone popolari del dio Bacco grasso e rubicondo con il fiasco in mano, nelle insegne di tante (peraltro compiante) trattorie sono la versione modificata in un mondo in cui il significato di quel dio si è perduto. Un po’ come accadde con le sirene, in origine terribili uccelli incantatori che trascinavano nell’abisso i naviganti e poi, nel Novecento, prosperose donne pesce affisse alle insegne di stabilimenti balneari.
Dioniso, o Bacco, è ben altro: nelle Heroides di Ovidio, splendido poema in cui parlano donne del mito dal tragico destino, una di esse, Arianna, principessa di Creta, racconta l’abbandono di Teseo che aveva salvato dal labirinto col famoso filo, la sua solitudine sull’isola di Nasso, l’apparizione di Dioniso. La consolò, congiungendosi a lei e tramutandola in stella.
Ma il prodigio più originale e indicativo del dio si incontra nel capolavoro di Ovidio, Le metamorfosi, in cui Dioniso trasforma in pesci dei marinai che lo avevano schernito. Dopo il bivacco su una spiaggia, nei pressi di Capri, la cena con le triglie e le murene arrostite, il molto vino e il sonno pesante, al mattino i pescatori, imbattutisi in un ragazzino evidentemente ancora stordito da una bevuta, barcollante, lo avevano immediatamente catturato e portato a bordo, decisi ad approfittarne. All’improvviso il giovane, come se si fossero dissolti di colpo i fumi del vino, biascicò qualche parola e, tra le risate dell’equipaggio, il suo volto s’incoronò di grappoli d’uva, il suo sguardo divenne sfavillate e irridente, e attorno a lui apparvero dal nulla tigri, linci e pantere.
I remi erano impigliati in un’edera invincibile e sorta d’incanto dal fondo del mare, la barca non si muoveva. Allora disperatamente i pescatori si buttarono in mare. Appena toccate le onde, uno prese a scurirsi nel corpo e a piegarsi con un’evidente curvatura della spina dorsale, mentre la bocca di un altro si allargava in quella di un grosso pesce, e il suo corpo si copriva di squame. E un altro vide i propri arti mutarsi in pinne, e poi i suoi occhi arrotondarsi e gonfiarsi come quelli delle cernie. Un altro si trovò a saltare nell’acqua in modo inconsueto: era diventato un delfino. Dioniso aveva operato il suo incantesimo in mare, gli uomini che avevano oltraggiato il divino ora erano riportati a una vita precedente, originaria.
Dioniso, cui è dedicato l’interessante saggio di Massimo Fusillo, Il dio ibrido (Il Mulino, pagg. 272, euro 23) è spesso evocato, citato, reinventato in altre forme, a significare, per lo più in modo generico, la forza travolgente dell’estasi irrazionale, contrapposta alle ragioni armoniche della forma e dell’ordine, seguendo, in modo sommario, la contrapposizione resa celebre da Nietzsche, che vedeva nel mondo greco non la sola dimensione apollinea, quieta e serena, ma anche la sua irriducibilmente agonistica conflittualità con l’opposto spirito dionisiaco, distruttore e insieme rigenerante.
Lo studio si sofferma sul significato moderno, anzi contemporaneo di Dioniso che sarà associato ora allo spirito eversivo e utopistico del ’68, ora a nuove forme di conoscenza e spettacolo, come precedentemente, sotto l’influenza del tedesco Walter Otto, era stato in qualche misura accostato a un rinascente paganesimo, non privo di inquietanti relazioni con la cultura che giustificò il nazismo.
Il grande storico Vernant pone Dioniso al centro del mistero dei greci, con Medusa e Artemide, divinità orientali, a sottolineare come essi sappiano accogliere il diverso anche nella piazza della polis, mentre la tragedia greca, con Le baccanti di Euripide, ne offre una versione complessa, polivalente, incessantemente interrogata dal teatro fino a esempi recentissimi e memorabili, come quello di Ronconi. Ma esiste anche una lettura di Dioniso, il dio della vite, dell’ebbrezza, del vino, e quindi del sangue, come essere di natura cristica, nato in una civiltà precristiana. Certo in nome di Dioniso nasce la tragedia greca che è essenzialmente un rito propiziatorio, promessa di vita e rigenerazione, e Dioniso si rivela dio del teatro non in quanto finzione ingannevole, ma al contrario finzione necessaria a vedere il vero, strappato il velo delle apparenze ingannevoli: un dio consustanziato alla vita nella sua essenza.
Dioniso, o Bacco, è ben altro: nelle Heroides di Ovidio, splendido poema in cui parlano donne del mito dal tragico destino, una di esse, Arianna, principessa di Creta, racconta l’abbandono di Teseo che aveva salvato dal labirinto col famoso filo, la sua solitudine sull’isola di Nasso, l’apparizione di Dioniso. La consolò, congiungendosi a lei e tramutandola in stella.
Ma il prodigio più originale e indicativo del dio si incontra nel capolavoro di Ovidio, Le metamorfosi, in cui Dioniso trasforma in pesci dei marinai che lo avevano schernito. Dopo il bivacco su una spiaggia, nei pressi di Capri, la cena con le triglie e le murene arrostite, il molto vino e il sonno pesante, al mattino i pescatori, imbattutisi in un ragazzino evidentemente ancora stordito da una bevuta, barcollante, lo avevano immediatamente catturato e portato a bordo, decisi ad approfittarne. All’improvviso il giovane, come se si fossero dissolti di colpo i fumi del vino, biascicò qualche parola e, tra le risate dell’equipaggio, il suo volto s’incoronò di grappoli d’uva, il suo sguardo divenne sfavillate e irridente, e attorno a lui apparvero dal nulla tigri, linci e pantere.
I remi erano impigliati in un’edera invincibile e sorta d’incanto dal fondo del mare, la barca non si muoveva. Allora disperatamente i pescatori si buttarono in mare. Appena toccate le onde, uno prese a scurirsi nel corpo e a piegarsi con un’evidente curvatura della spina dorsale, mentre la bocca di un altro si allargava in quella di un grosso pesce, e il suo corpo si copriva di squame. E un altro vide i propri arti mutarsi in pinne, e poi i suoi occhi arrotondarsi e gonfiarsi come quelli delle cernie. Un altro si trovò a saltare nell’acqua in modo inconsueto: era diventato un delfino. Dioniso aveva operato il suo incantesimo in mare, gli uomini che avevano oltraggiato il divino ora erano riportati a una vita precedente, originaria.
Dioniso, cui è dedicato l’interessante saggio di Massimo Fusillo, Il dio ibrido (Il Mulino, pagg. 272, euro 23) è spesso evocato, citato, reinventato in altre forme, a significare, per lo più in modo generico, la forza travolgente dell’estasi irrazionale, contrapposta alle ragioni armoniche della forma e dell’ordine, seguendo, in modo sommario, la contrapposizione resa celebre da Nietzsche, che vedeva nel mondo greco non la sola dimensione apollinea, quieta e serena, ma anche la sua irriducibilmente agonistica conflittualità con l’opposto spirito dionisiaco, distruttore e insieme rigenerante.
Lo studio si sofferma sul significato moderno, anzi contemporaneo di Dioniso che sarà associato ora allo spirito eversivo e utopistico del ’68, ora a nuove forme di conoscenza e spettacolo, come precedentemente, sotto l’influenza del tedesco Walter Otto, era stato in qualche misura accostato a un rinascente paganesimo, non privo di inquietanti relazioni con la cultura che giustificò il nazismo.
Il grande storico Vernant pone Dioniso al centro del mistero dei greci, con Medusa e Artemide, divinità orientali, a sottolineare come essi sappiano accogliere il diverso anche nella piazza della polis, mentre la tragedia greca, con Le baccanti di Euripide, ne offre una versione complessa, polivalente, incessantemente interrogata dal teatro fino a esempi recentissimi e memorabili, come quello di Ronconi. Ma esiste anche una lettura di Dioniso, il dio della vite, dell’ebbrezza, del vino, e quindi del sangue, come essere di natura cristica, nato in una civiltà precristiana. Certo in nome di Dioniso nasce la tragedia greca che è essenzialmente un rito propiziatorio, promessa di vita e rigenerazione, e Dioniso si rivela dio del teatro non in quanto finzione ingannevole, ma al contrario finzione necessaria a vedere il vero, strappato il velo delle apparenze ingannevoli: un dio consustanziato alla vita nella sua essenza.
«Il Giornale» del 12 luglio 2007
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