Nella testimonianza di Viktor Bede, ex prete e amico del dittatore, un «testamento» ben diverso da quello ufficiale: «Ci mancano dieci san Francesco»
di Paolo Vicentin
Sul letto di morte un’amara riflessione sulla necessità della violenza. Eppure concludeva: «Tra cent’anni sotto le macerie delle istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica»
Era il 9 aprile del 1917 allorché si misero in viaggio dal loro esilio in Svizzera, 31 rivoluzionari russi, con Lenin quale capo: erano diretti in Svezia, attraverso la Germania, in un vagone piombato. Il governo del Reich tedesco di allora aveva concesso, attraverso il proprio territorio, questo passaggio, con la speranza che la rivoluzione russa, già incominciata, desse il colpo decisivo ad uno dei nemici allora in guerra contro la Germania, la Russia appunto.
In quanto a Lenin, era noto essere un ateo a tutto campo. In seguito tuttavia venne diffusa una dichiarazione del morente rivoluzionario ben singolare, che sembrò significare una sconfessione di tutto il suo operato. Alla presenza di un ex-prete ungherese, suo collega giornalista a Parigi e suo confidente, sicuro dell'imminenza della morte - come avevano affermato i medici - avrebbe dichiarato: «Ho sbagliato. Senza dubbio è stato necessario liberare masse di persone dalla repressione, ma i nostri metodi hanno avuto, come conseguenza, l'oppressione e il terrificante massacro di altri oppressi». Proseguiva, rivolto all'amico ungherese: «Tu sai che la mia malattia mi porterà presto alla morte e mi sento abbandonato nell'oceano di sangue di infinite vittime. Per salvare la nostra Russia ciò è stato necessario, ma è troppo tardi per cambiare ora: avremmo bisogno di dieci Francesco d'Assisi». Così scriveva su una pubblicazione cattolica tedesca, nel 1977, il vescovo di Ratisbona di allora, Rudolf Graber, citando gli articoli che Viktor Bede avrebbe scritto per L'Osservatore romano, pubblicati il 23 agosto e il 24 settembre 1924 e usciti senza firma. Di questi incontri tra l'ex-ecclesiastico ungherese, che si chiamava Viktor Bede, e il fondatore del comunismo, ha parlato anche il giornalista tedesco Hansjakob Stehle in un volume dal titolo Die Ostpolitik des Vatikans.
Nel ricordare sul quotidiano vaticano i suoi incontri con Lenin, questo ex-prete riportava altre dichiarazioni del rivoluzionario: «L'umanità percorre la via sovietica e fra cento anni non esisterà altra forma di governo». Aggiungendo: «Credo, tuttavia, che sotto le macerie delle attuali istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica... nel prossimo secolo ci sarà solo una forma di governo, quella sovietica, e una religione, la cattolica». E avrebbe concluso, il morente Lenin: «Peccato che noi, allora, non ci saremo più...».
L'articolo Pensieri di Lenin sul cattolicesimo di Viktor Bede informa che l'autore aveva conosciuto Lenin, a Parigi, per la «comune professione di giornalisti», definendo il loro rapporto «molteplice e cordiale». Pochi mesi prima della morte del dittatore, egli si recò a Mosca «per far visita al suo vecchio collega e fu ricevuto, nella sua privata abitazione al Cremlino, con la consueta cordialità». Annota ancora: «Potevo andare a trovarlo, senza grandi difficoltà, in quanto, ad eccezione di lui, nessuno sapeva che ero un ex-prete. E, in tal modo, ho potuto procurarmi importanti documenti fornitimi dal dittatore». Prosegue: «Come era consuetudine, i nostri colloqui erano discussioni piuttosto che conversazioni e ciò mi piaceva, perché il mio interlocutore aveva mantenuto tutta la semplicità e schiettezza del passato, che mi permetteva di ricordare più l'amico e il giornalista che l'ideatore di una delle più spaventose rivoluzioni della storia. Da questi incontri personali, da uomo a uomo, avevo l'impressione che la persona che veniva presentata come crudele e tiranna era, a suo tempo, vittima della sua concezione sociale e che lui, contro la sua volontà, era stato indotto a commettere misfatti, a motivo della ragione di Stato...».
Continua l'ex-ecclesiastico: «In realtà si svelò dinanzi a me un carattere, nonostante tutto, ancora così mite, come un tempo avevo apprezzato a Parigi, di una, chiamiamola pure, dolcezza di uomo che molto ebbe da sopportare. Lo soffocava l'idea che si era fatta della sua missione, spinta fino a quella forma di mist icismo politico, suo proprio, nei sentimenti dell'uomo privato, per lasciare mano libera al dittatore a decidere, di sua volontà, di liberare l'umanità, allargando su tutto il mondo la sovranità sovietica, della quale necessità era intimamente convinto».
Continua questo rapporto: «Mi disse ancora un giorno: cosa vuoi tu quando mi rimproveri che noi sovietici dobbiamo usare la violenza e i metodi più radicali per tenere lontani dalla nostra nazione, tutti gli elementi nocivi al nostro programma... Con questi non si può discutere ragionevolmente, come non lo si può fare con una vipera che ti punge: la si uccide. Molti, purtroppo, non lo sanno o, viziosi, non sono in grado di capire la necessità di destinare il loro soprappiù a beneficio della grande massa che non possiede nulla: è questo il motivo perché si mette in atto l'inflessibile espropriazione e lo sterminio di quanti a ciò si oppongono».
Lenin affermò poi, in un altro colloquio: «Vedi, l'umanità, quasi seguendo il suo destino, ha intrapreso il cammino dell'Unione Sovietica. È solo questione di tempo. Fra un secolo tra i popoli civilizzati non ci sarà altra forma di governo. Tuttavia credo che continuerà a sussistere, sotto le macerie delle attuali istituzioni, la gerarchia cattolica, perché in essa si effettua sistematicamente l'educazione di coloro i quali hanno il compito di guidare gli altri. Non nascerà alcun vescovo o papa, come finora è nato un principe, un re o un imperatore, perché per diventare un capo, una guida, nella Chiesa cattolica, è necessario aver già dato prova di capacità. È in questa saggia disposizione la grande forza morale del cattolicesimo che da duemila anni resiste a tutte le tempeste e rimarrà invincibile anche in futuro. La forza di questa Chiesa è totale, è una forza morale e non estorta. L'umanità ha bisogno dell'una e dell'altra potenza».
Nel secondo articolo, apparso su L'Osservatore romano il 24 settembre 1924, l'autore tratta il problema russo dal punto di vis ta del dittatore. Bede rimproverava a Lenin di non avere egli alcuna convinzione morale, anzi di distruggere tale fondamento, perché sradica i sentimenti religiosi dal cuore degli uomini. Lenin rispose: «Voi volete dunque che io lasci venire i vostri confratelli, affinché essi incitino il popolo contro i sovietici». Rispose Bede: «Che la vita dei nostri confratelli sia l'applicazione del più puro comunismo, viene confermato da tanti secoli di esperienza: se si crede cioè alla possibilità di una educazione del popolo verso il disinteressamento e l'altruismo, non si può presentare miglior esempio di quello dei membri dei nostri ordini religiosi». Prosegue il racconto: «Lenin mi fissò con i suoi occhi penetranti. Mi resi conto che in lui i pensieri erano in subbuglio e lo udii mormorare queste parole: "No, non è possibile..."».
Annota l'amico: «Dopo aver atteso un po', insistetti nel suo dovere di garantire la libertà di religione. Lenin mi fissò con i suoi grandi occhi, senza aprir bocca. Poi, con accento duro, sarcastico, mi chiese: "È il tuo papa che ti ha mandato da me?" Era il tono di voce del dittatore, non più dell'amico. Lo assicurai che non avevo avuto alcun incarico, da nessuno, e che ero venuto a Mosca senza aver parlato del viaggio a chicchessia, nemmeno ai più fidati amici. Lenin si calmò di nuovo e disse: "Ti ammiro... sento che vivrò ancora per poco tempo. Ciò che tu pensi è troppo bello perché io lo potessi esprimere, è troppo grande perché io potessi realizzarlo. Ci saranno altri, spero, i quali invece di misure violente e di crimini, adotteranno metodi che tu proponi per far felice l'umanità"». Questo secondo articolo dell'ex prete ha questa conclusione: «Era dunque troppo tardi: il terribile dittatore sentiva di non possedere più la forza per accettare le grandi idee che egli ancora ammirava. Sentiva di non avere più la forza di distruggere la banda che lo teneva attanagliato, dopo che essa l'aveva innalzato sul trono degli zar». Insomma, il padre della rivoluzione bolscevica si diceva disgustato per gli orrori provocati, ma li giustificava. Lenin moriva poco tempo dopo. Fu pubblicato un suo testamento: «Ma questo è davvero il testamento di Lenin? - si chiede Viktor Bede - Io ne dubito molto...».
Colloqui singolari. Citati anche dallo storico Andrze J. Kaminski nel volume I campi di concentramento dal 1896 a oggi (Bollati Boringhieri 1997) e dal vaticanista Sergio Trasatti nel libro La croce e la stella (Mondadori 1993). Non esiste alcun dubbio sulla loro autenticità, affermava il vescovo di Ratisbona, Rudolf Graber, nel 1977, sottolineando che bisognava aggiungere qualche cosa, però, all'immagine di Lenin, con queste parole: «Io non sono in grado di affermare se i colloqui riferiti rappresentano una condanna della sua opera; ciononostante possono indurre anche noi a una riflessione».
In quanto a Lenin, era noto essere un ateo a tutto campo. In seguito tuttavia venne diffusa una dichiarazione del morente rivoluzionario ben singolare, che sembrò significare una sconfessione di tutto il suo operato. Alla presenza di un ex-prete ungherese, suo collega giornalista a Parigi e suo confidente, sicuro dell'imminenza della morte - come avevano affermato i medici - avrebbe dichiarato: «Ho sbagliato. Senza dubbio è stato necessario liberare masse di persone dalla repressione, ma i nostri metodi hanno avuto, come conseguenza, l'oppressione e il terrificante massacro di altri oppressi». Proseguiva, rivolto all'amico ungherese: «Tu sai che la mia malattia mi porterà presto alla morte e mi sento abbandonato nell'oceano di sangue di infinite vittime. Per salvare la nostra Russia ciò è stato necessario, ma è troppo tardi per cambiare ora: avremmo bisogno di dieci Francesco d'Assisi». Così scriveva su una pubblicazione cattolica tedesca, nel 1977, il vescovo di Ratisbona di allora, Rudolf Graber, citando gli articoli che Viktor Bede avrebbe scritto per L'Osservatore romano, pubblicati il 23 agosto e il 24 settembre 1924 e usciti senza firma. Di questi incontri tra l'ex-ecclesiastico ungherese, che si chiamava Viktor Bede, e il fondatore del comunismo, ha parlato anche il giornalista tedesco Hansjakob Stehle in un volume dal titolo Die Ostpolitik des Vatikans.
Nel ricordare sul quotidiano vaticano i suoi incontri con Lenin, questo ex-prete riportava altre dichiarazioni del rivoluzionario: «L'umanità percorre la via sovietica e fra cento anni non esisterà altra forma di governo». Aggiungendo: «Credo, tuttavia, che sotto le macerie delle attuali istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica... nel prossimo secolo ci sarà solo una forma di governo, quella sovietica, e una religione, la cattolica». E avrebbe concluso, il morente Lenin: «Peccato che noi, allora, non ci saremo più...».
L'articolo Pensieri di Lenin sul cattolicesimo di Viktor Bede informa che l'autore aveva conosciuto Lenin, a Parigi, per la «comune professione di giornalisti», definendo il loro rapporto «molteplice e cordiale». Pochi mesi prima della morte del dittatore, egli si recò a Mosca «per far visita al suo vecchio collega e fu ricevuto, nella sua privata abitazione al Cremlino, con la consueta cordialità». Annota ancora: «Potevo andare a trovarlo, senza grandi difficoltà, in quanto, ad eccezione di lui, nessuno sapeva che ero un ex-prete. E, in tal modo, ho potuto procurarmi importanti documenti fornitimi dal dittatore». Prosegue: «Come era consuetudine, i nostri colloqui erano discussioni piuttosto che conversazioni e ciò mi piaceva, perché il mio interlocutore aveva mantenuto tutta la semplicità e schiettezza del passato, che mi permetteva di ricordare più l'amico e il giornalista che l'ideatore di una delle più spaventose rivoluzioni della storia. Da questi incontri personali, da uomo a uomo, avevo l'impressione che la persona che veniva presentata come crudele e tiranna era, a suo tempo, vittima della sua concezione sociale e che lui, contro la sua volontà, era stato indotto a commettere misfatti, a motivo della ragione di Stato...».
Continua l'ex-ecclesiastico: «In realtà si svelò dinanzi a me un carattere, nonostante tutto, ancora così mite, come un tempo avevo apprezzato a Parigi, di una, chiamiamola pure, dolcezza di uomo che molto ebbe da sopportare. Lo soffocava l'idea che si era fatta della sua missione, spinta fino a quella forma di mist icismo politico, suo proprio, nei sentimenti dell'uomo privato, per lasciare mano libera al dittatore a decidere, di sua volontà, di liberare l'umanità, allargando su tutto il mondo la sovranità sovietica, della quale necessità era intimamente convinto».
Continua questo rapporto: «Mi disse ancora un giorno: cosa vuoi tu quando mi rimproveri che noi sovietici dobbiamo usare la violenza e i metodi più radicali per tenere lontani dalla nostra nazione, tutti gli elementi nocivi al nostro programma... Con questi non si può discutere ragionevolmente, come non lo si può fare con una vipera che ti punge: la si uccide. Molti, purtroppo, non lo sanno o, viziosi, non sono in grado di capire la necessità di destinare il loro soprappiù a beneficio della grande massa che non possiede nulla: è questo il motivo perché si mette in atto l'inflessibile espropriazione e lo sterminio di quanti a ciò si oppongono».
Lenin affermò poi, in un altro colloquio: «Vedi, l'umanità, quasi seguendo il suo destino, ha intrapreso il cammino dell'Unione Sovietica. È solo questione di tempo. Fra un secolo tra i popoli civilizzati non ci sarà altra forma di governo. Tuttavia credo che continuerà a sussistere, sotto le macerie delle attuali istituzioni, la gerarchia cattolica, perché in essa si effettua sistematicamente l'educazione di coloro i quali hanno il compito di guidare gli altri. Non nascerà alcun vescovo o papa, come finora è nato un principe, un re o un imperatore, perché per diventare un capo, una guida, nella Chiesa cattolica, è necessario aver già dato prova di capacità. È in questa saggia disposizione la grande forza morale del cattolicesimo che da duemila anni resiste a tutte le tempeste e rimarrà invincibile anche in futuro. La forza di questa Chiesa è totale, è una forza morale e non estorta. L'umanità ha bisogno dell'una e dell'altra potenza».
Nel secondo articolo, apparso su L'Osservatore romano il 24 settembre 1924, l'autore tratta il problema russo dal punto di vis ta del dittatore. Bede rimproverava a Lenin di non avere egli alcuna convinzione morale, anzi di distruggere tale fondamento, perché sradica i sentimenti religiosi dal cuore degli uomini. Lenin rispose: «Voi volete dunque che io lasci venire i vostri confratelli, affinché essi incitino il popolo contro i sovietici». Rispose Bede: «Che la vita dei nostri confratelli sia l'applicazione del più puro comunismo, viene confermato da tanti secoli di esperienza: se si crede cioè alla possibilità di una educazione del popolo verso il disinteressamento e l'altruismo, non si può presentare miglior esempio di quello dei membri dei nostri ordini religiosi». Prosegue il racconto: «Lenin mi fissò con i suoi occhi penetranti. Mi resi conto che in lui i pensieri erano in subbuglio e lo udii mormorare queste parole: "No, non è possibile..."».
Annota l'amico: «Dopo aver atteso un po', insistetti nel suo dovere di garantire la libertà di religione. Lenin mi fissò con i suoi grandi occhi, senza aprir bocca. Poi, con accento duro, sarcastico, mi chiese: "È il tuo papa che ti ha mandato da me?" Era il tono di voce del dittatore, non più dell'amico. Lo assicurai che non avevo avuto alcun incarico, da nessuno, e che ero venuto a Mosca senza aver parlato del viaggio a chicchessia, nemmeno ai più fidati amici. Lenin si calmò di nuovo e disse: "Ti ammiro... sento che vivrò ancora per poco tempo. Ciò che tu pensi è troppo bello perché io lo potessi esprimere, è troppo grande perché io potessi realizzarlo. Ci saranno altri, spero, i quali invece di misure violente e di crimini, adotteranno metodi che tu proponi per far felice l'umanità"». Questo secondo articolo dell'ex prete ha questa conclusione: «Era dunque troppo tardi: il terribile dittatore sentiva di non possedere più la forza per accettare le grandi idee che egli ancora ammirava. Sentiva di non avere più la forza di distruggere la banda che lo teneva attanagliato, dopo che essa l'aveva innalzato sul trono degli zar». Insomma, il padre della rivoluzione bolscevica si diceva disgustato per gli orrori provocati, ma li giustificava. Lenin moriva poco tempo dopo. Fu pubblicato un suo testamento: «Ma questo è davvero il testamento di Lenin? - si chiede Viktor Bede - Io ne dubito molto...».
Colloqui singolari. Citati anche dallo storico Andrze J. Kaminski nel volume I campi di concentramento dal 1896 a oggi (Bollati Boringhieri 1997) e dal vaticanista Sergio Trasatti nel libro La croce e la stella (Mondadori 1993). Non esiste alcun dubbio sulla loro autenticità, affermava il vescovo di Ratisbona, Rudolf Graber, nel 1977, sottolineando che bisognava aggiungere qualche cosa, però, all'immagine di Lenin, con queste parole: «Io non sono in grado di affermare se i colloqui riferiti rappresentano una condanna della sua opera; ciononostante possono indurre anche noi a una riflessione».
«Avvenire» del 12 luglio 2007
Nessun commento:
Posta un commento