di Eugenia Roccella
Il proscioglimento del dott. Mario Riccio, il medico che ha staccato la spina a Piergiorgio Welby, dimostra in modo evidente che non c'è bisogno di nessuna legge sul diritto a morire, e che la battaglia radicale o era perfettamente superflua, o tragicamente ambigua. La Costituzione italiana prevede, come è noto, il diritto ad abbandonare le terapie, ed è quello che fa, ogni anno, un piccolo numero di malati gravi. Lo fanno senza scandalo e senza clamore, garantiti da una norma costituzionale che mai nessuno ha messo in discussione.
Nel caso di Welby, staccare il respiratore che lo teneva artificialmente in vita implicava anche l'immediata somministrazione di forti dosi di sedativi, per evitare al paziente le terribili sofferenze di una morte per soffocamento. Perché allora indagare su Mario Riccio, se tutto era legale? Perché la campagna radicale era esplicitamente concentrata sull'eutanasia, sulla richiesta di una legge, e sulla rivendicazione della morte come diritto individuale. L'eutanasia, cioè il diritto al suicidio assistito nel caso si ritenga la propria vita non più degna di essere vissuta, non è l'abbandono delle cure. Il cuore del diritto a morire è il concetto di qualità della vita, e non il problema umanissimo di evitare la sofferenza. Welby, per esempio, ha rifiutato di essere accompagnato alla morte dal proprio medico, che gli aveva proposto una sedazione meno brutale, garantendogli comunque l'incoscienza e l'assenza di dolore. Invece si è preferito chiamare il dott. Riccio, che non conosceva il paziente, ma è venuto da lontano con la sua valigetta attrezzata, per compiere un gesto che avesse più impatto mediatico, che somigliasse il più possibile a una scelta eutanasica. L'ambiguità insomma era prevista e voluta: la disobbedienza civile non c'è stata, ma si doveva pensare che ci fosse.
Il compito del magistrato era accertare se la morte di Welby fosse dovuta alla sedazione, somministrata quindi con l'intenzione di uccidere, oppure all'abbandono della terapia, cioè al distacco dalla macchina che consentiva al malato di respirare. Ora che si sa che il dott. Riccio (come lui stesso ha sempre sostenuto), ha agito entro i confini della legge, tutta la polvere sollevata sul caso comincia a diradarsi, e si può vedere con chiarezza che una nuova normativa non è necessaria.
In questo campo, procedere per casi personali non aiuta. Basta pensare a Giovanni Nuvoli, protagonista di una vicenda densa di ombre e di contraddizioni. Se Piergiorgio Welby era un militante, e aveva consapevolmente deciso di dare significato alla propria morte trasformandola in un evento politico, Nuvoli era solo un uomo disperato, che più volte aveva cambiato parere, e la cui volontà di morire oscillava a seconda del contesto e della situazione. Oggi si dice che è stato costretto a una fine crudele, per denutrizione: ma è la stessa morte che nel caso di Terri Schiavo è stata considerata un atto pietoso, una scelta di eutanasia che avrebbe liberato la malata dalla sofferenza e ne avrebbe attuato le volontà. Il concetto di qualità della vita è, infatti, intrinsecamente ambiguo: dovrebbe essere un criterio soggettivo, un giudizio che solo il malato può dare, ma diventa subito un criterio oggettivo, stabilito da medici, esperti, giudici, parenti più o meno amorevoli. Il diritto a governare la propria morte, punto estremo dell'autodeterminazione individuale, si rovescia regolarmente nel suo contrario, nella consegna del proprio corpo e dell'ultimo soffio di vita nelle mani di altri. È così in Olanda e in Belgio, e ovunque sia in vigore una legge sull'eutanasia.
Quando si tratta di vita e di morte è necessario giudicare caso per caso, ed essere cauti fino all'estremo: perché l'errore in questo campo non è rimediabile, e si chiama omicidio. La scelta personale di abbandonare le cure non può essere trasformata in una lotta per il diritto a morire, non può essere ogni volta lanciata sulla scena politica come un sasso dal cavalcavia. Se fossimo meno tesi a tirare conclusioni da ogni singola storia, meno disposti a farne una vicenda esemplare da spendere immediatamente, il dibattito pubblico forse ne guadagnerebbe.
Nel caso di Welby, staccare il respiratore che lo teneva artificialmente in vita implicava anche l'immediata somministrazione di forti dosi di sedativi, per evitare al paziente le terribili sofferenze di una morte per soffocamento. Perché allora indagare su Mario Riccio, se tutto era legale? Perché la campagna radicale era esplicitamente concentrata sull'eutanasia, sulla richiesta di una legge, e sulla rivendicazione della morte come diritto individuale. L'eutanasia, cioè il diritto al suicidio assistito nel caso si ritenga la propria vita non più degna di essere vissuta, non è l'abbandono delle cure. Il cuore del diritto a morire è il concetto di qualità della vita, e non il problema umanissimo di evitare la sofferenza. Welby, per esempio, ha rifiutato di essere accompagnato alla morte dal proprio medico, che gli aveva proposto una sedazione meno brutale, garantendogli comunque l'incoscienza e l'assenza di dolore. Invece si è preferito chiamare il dott. Riccio, che non conosceva il paziente, ma è venuto da lontano con la sua valigetta attrezzata, per compiere un gesto che avesse più impatto mediatico, che somigliasse il più possibile a una scelta eutanasica. L'ambiguità insomma era prevista e voluta: la disobbedienza civile non c'è stata, ma si doveva pensare che ci fosse.
Il compito del magistrato era accertare se la morte di Welby fosse dovuta alla sedazione, somministrata quindi con l'intenzione di uccidere, oppure all'abbandono della terapia, cioè al distacco dalla macchina che consentiva al malato di respirare. Ora che si sa che il dott. Riccio (come lui stesso ha sempre sostenuto), ha agito entro i confini della legge, tutta la polvere sollevata sul caso comincia a diradarsi, e si può vedere con chiarezza che una nuova normativa non è necessaria.
In questo campo, procedere per casi personali non aiuta. Basta pensare a Giovanni Nuvoli, protagonista di una vicenda densa di ombre e di contraddizioni. Se Piergiorgio Welby era un militante, e aveva consapevolmente deciso di dare significato alla propria morte trasformandola in un evento politico, Nuvoli era solo un uomo disperato, che più volte aveva cambiato parere, e la cui volontà di morire oscillava a seconda del contesto e della situazione. Oggi si dice che è stato costretto a una fine crudele, per denutrizione: ma è la stessa morte che nel caso di Terri Schiavo è stata considerata un atto pietoso, una scelta di eutanasia che avrebbe liberato la malata dalla sofferenza e ne avrebbe attuato le volontà. Il concetto di qualità della vita è, infatti, intrinsecamente ambiguo: dovrebbe essere un criterio soggettivo, un giudizio che solo il malato può dare, ma diventa subito un criterio oggettivo, stabilito da medici, esperti, giudici, parenti più o meno amorevoli. Il diritto a governare la propria morte, punto estremo dell'autodeterminazione individuale, si rovescia regolarmente nel suo contrario, nella consegna del proprio corpo e dell'ultimo soffio di vita nelle mani di altri. È così in Olanda e in Belgio, e ovunque sia in vigore una legge sull'eutanasia.
Quando si tratta di vita e di morte è necessario giudicare caso per caso, ed essere cauti fino all'estremo: perché l'errore in questo campo non è rimediabile, e si chiama omicidio. La scelta personale di abbandonare le cure non può essere trasformata in una lotta per il diritto a morire, non può essere ogni volta lanciata sulla scena politica come un sasso dal cavalcavia. Se fossimo meno tesi a tirare conclusioni da ogni singola storia, meno disposti a farne una vicenda esemplare da spendere immediatamente, il dibattito pubblico forse ne guadagnerebbe.
«Il Giornale» del 25 luglio 2007
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