Individuata una nuova fonte dei «Promessi Sposi» per un episodio legato al cardinal Borromeo
dDi Dante Isella
La storia del prete assassino cancellata dal romanzo
Quando all’inizio del 1824 il Manzoni iniziò a scrivere, dopo la prima, la seconda redazione del romanzo (che a lungo avrebbe avuto il titolo di Gli Sposi Promessi), due furono gli ordini di problemi che dovette affrontare: il passaggio, sul piano linguistico, dalla soluzione europeizzante dell’illuminismo lombardo del Beccaria e dei Verri, a cui si era sostanzialmente attenuto nel Fermo e Lucia, a quella del «toscano» quale lingua della grande tradizione letteraria italiana; secondo, la necessità, di sostituire a una struttura fatta di grandi blocchi narrativi un impianto più mobile, in cui le vicende dei protagonisti e delle parti comprimarie si intersecassero tra loro, con frequenti sospensioni e passaggi da una situazione all’altra, dall’uno all’altro teatro d’azione. Non senza, com’è il caso della Monaca di Monza, una drastica riduzione di quel romanzo nel romanzo, da sei capitoli a due, o di aggiunte, come lo splendido capitolo della veglia di Renzo nell’attesa notturna di poter passare l’Adda. La casistica è complessa; succede pure che il fiume della storia principale riceva a un tratto l’apporto di qualche torrentello secondario, poi soppresso dalla mappa del romanzo. È quanto avviene nel cap. XXV, dove (già si ricavava dall’apparato del Ghisalberti, eccezionalmente, e meglio risulterà dall’apparato critico di Barbara Colli per l’edizione in corso della seconda redazione) si descrivono le visite pastorali, una parrocchia al giorno, del cardinal Federigo. «In una di queste gli accadde cosa che veramente non appartiene alla nostra storia, ma che può servire molto a quella dei tempi; e del resto in quattro parole ce ne sbrighiamo. Arrivò un drappello di soldati...». L’episodio narrato dal Manzoni (una scheggia espunta di roman noir, che con i suoi rifacimenti e le molte correzioni occupa oltre due colonne dell’autografo) non risulta che sia mai stato messo in relazione con quanto, sullo stesso argomento, è stato scritto da altri, in tempi più recenti. La fonte prima, a cui tutti si sono rifatti, è la storia ecclesiastica della diocesi milanese di Giuseppe Ripamonti, scritta in latino (Historia Patria, dec. V, , lib. V, c. X): un testo molto familiare al Manzoni, da cui discende da presso la Vita del Cardinal Federigo Borromeo del secentista Francesco Rivola. Il racconto nella fonte va oltre. Un sinistro complice del Prevosto di Seveso, intenzionato a compiere per lui quella memorabile vendetta, aveva cercato di stabilire col cardinale una certa consuetudine di incontri. Nel mezzo di una festa, accompagnata da grande scampanio, un batacchio si staccò dall’alto e andò a colpire il malintenzionato, ferendolo a un piede, e lasciando miracolosamente illeso il cardinale. Il primo a raccogliere in tempi più vicini a noi queste notizie sul Prevosto di Seveso fu Ignazio Cantù nel suo libro su Le vicende della Brianza e de’paesi circonvicini (1853, ed. 2a , II 65-66); ma è soltanto in un articolo dell’«Archivio storico lombardo» del 1921, a firma di Rinaldo Beretta che si è ricostruita, su documenti certi, la biografia di Giovan Battista Beanio, o Beannio, nato a Como nel 1570, ordinato sacerdote nel 1594, già cappellano nella sua città natale; poi dal 1594, per un decennio, Prevosto di Seveso. Le sue «disgrazie» ebbero inizio l’anno seguente: arrestato con dodici capi d’imputazione, addossatigli da abitanti e parroci del luogo (ma dagli storiografi moderni fatti oggetto di dubitosi accertamenti pro reo), dopo due anni di detenzione nelle carceri arcivescovali e altri cinque scontati sulle triremi, gli riuscì di evadere, continuando la sua vita di fuorilegge nella valle di San Martino, ai confini tra Spagnoli e Veneziani. Ma, in realtà, numerose sono le lettere che il Beannio scrisse a Federigo, tra il 1611 e il 1613 (un anno prima della morte), protestandosi peccatore pentito e implorando la sua misericordia: lettere spedite da un esule in condizioni sempre più miserevoli, fuggiasco da un luogo all’altro d’Italia, Civitavecchia, Napoli, Livorno, Genova, e in fine da un convento domenicano di Morbegno, in Valtellina, da Mantova ... Il Cardinale non rispose mai.
Il Cardinale Federigo Borromeo (1564-1631), arcivescovo di Milano dal 1595, viene esaltato da Manzoni ne «I Promessi Sposi» per la nobile figura di umanista
Alessandro Manzoni (1785-1873) terminò la stesura definitiva de «I Promessi Sposi» nel 1827. Tra le sue altre opere: gli «Inni Sacri» e la tragedia «Adelchi»
Alessandro Manzoni (1785-1873) terminò la stesura definitiva de «I Promessi Sposi» nel 1827. Tra le sue altre opere: gli «Inni Sacri» e la tragedia «Adelchi»
«Corriere della sera» del 18 luglio 2007
Tramava per uccidere Federigo
Di Alessandro Manzoni
Di Alessandro Manzoni
Pubblichiamo il brano del capitolo XXV de «Gli Sposi Promessi» di Alessandro Manzoni (dedicato alle «Visite del Cardinal Federigo Borromeo alle parrocchie della sua Diocesi») . Il testo venne poi soppresso nella versione definitiva del romanzo
«In una di queste gli accadde cosa che veramente non appartiene alla nostra storia, ma che può servire molto a quella dei tempi; e del resto in quattro parole ce ne sbrighiamo. Arrivò un drappello di soldati mandato al cardinale dal castellano di Lecco, per onoranza, diceva egli; e avevano ordine di accompagnarlo in tutta la visita di quel territorio. Federigo impose che venissero licenziati cortesemente e riportassero al castellano i suoi ringraziamenti. Ma essendogli risposto che senza comando espresso di questo non potevano partire, inviò verso lui Girolamo Alfieri, uno de’suoi famigliari, a richiedere che il comando venisse spedito. A costui il castellano disse apertamente il vero motivo per cui aveva creduto di dover mandare quella guardia al cardinale, e per cui desiderava ch’ella non fosse rifiutata. Nella valle di san Martino, poco lontano da quivi sul territorio bergamasco, viveva rifuggito un malandrino solenne, un mostro, denominato il prevosto di Seveso. Pare un soprannome un po’strano; ma pur troppo non era soprannome. Costui era stato veramente prevosto della terra chiamata Seveso dal torrente di questo nome, in su la via da Milano a Como; e quivi, dalla sua casa prepositurale (che tempi, signori miei!) agguatava la notte i viaggiatori, sbucava ad assalirli, rubava, uccideva, e trasportava le spoglie in casa, i cadaveri nei sepolcri della sua stessa chiesa! Scoperto, rinchiuso nelle carceri dell’arcivescovado, trovò modo di scapparne; e nel rifugio che abbiam detto s’era più volte lasciato intendere di voler fare, a sua vendetta, un fatto di cui la posterità avrebbe a parlare. E s’aveva insieme sentore ch’egli studiava modo di potere avvicinarsi al cardinale. Questi, udita la relazione del suo famigliare, ordinò di nuovo, sorridendo, che i soldati partissero, e tanto persistette che fu obedito. E proseguì tranquillamente la visita, secondo il corso già stabilito».
«Corriere della sera» del 18 luglio 2007
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