A Bologna, Guglielmi, Grasso, Petruccioli e Saccà a confronto
di Cristina Taglietti
Buona maestra televisione. Scrittori ed editori italiani hanno scelto il festival bolognese «Le parole dello schermo» per liberarsi dell’imperativo di parlar male della tv e sdoganare il mezzo espressivo tradizionalmente considerato più basso. E questo nonostante il loro ospite, Angelo Guglielmi, assessore alla Cultura del comune di Bologna e mente del festival, avesse pensato il convegno «Editoria, cinema, televisione» come una difesa di quello che considera l’anello più debole della catena, la letteratura, schiacciata da forme e linguaggi mutuati dal piccolo schermo, una specie di colonizzazione visibile nell’esplosione del genere noir. Lo sdoganamento è cominciato dal critico Aldo Grasso, provocatorio moderatore del convegno («quando parlano della tv probabilmente Guglielmi e altri pensano a "Domenica In", io penso a "Lost" o a "Casalinghe disperate"»). Accanto alla prevedibile difesa di Claudio Petruccioli, presidente Rai («la televisione non è il Ground Zero dove la cultura muore») e di Agostino Saccà, direttore di Raifiction, si è schierato Gian Arturo Ferrari, direttore generale della divisione Libri Mondadori, che rifiuta «una visione della cultura simile al sistema filosofico di Plotino secondo cui al vertice c’è l’Essere e tutto il resto ne discende per emanazione». La letteratura pura, secondo Ferrari, non è l’Essere da cui discendono, via via deteriorandosi, tutte le altre forme espressive: «Io credo nella "qualità relativa", non assoluta. Vanno definiti degli ambiti all’interno dei quali si giudica la qualità». Tanto più che, secondo il numero uno della casa editrice di Segrate, «la maggiore produzione culturale italiana del Novecento, quella per cui siamo stati riconoscibili all’estero, è stata il cinema, non certo la letteratura. A parte Calvino, Eco e pochi altri, del resto il mondo avrebbe fatto tranquillamente a meno». L’inferiorità della tv è stata rifiutata sia da Citto Maselli sia da Rosaria Carpinelli, direttore editoriale di Fandango, secondo cui ciò che conta è, in ogni ambito, «l’urgenza della narrazione, la forza intrinseca della scrittura», sia da Luigi Brioschi del gruppo Longanesi, che ha tuttavia «difeso» la figura dell’Autore, sia da Alberto Rollo della Feltrinelli che ha parlato di «mescitazione» positiva tra i vari mezzi. E per gli scrittori? La televisione è un fatto acquisito, almeno per quelli della generazione più giovane (da Claudio Piersanti a Silvia Ballestra), che magari mantengono le distanze, ma non ne vivono la conflittualità. Così se per Francesco Piccolo, autore di narrativa, ma anche di soggetti per il cinema e la tv: «Il problema è che quelli colti che si occupano di tv la disprezzano, così i posti importanti vengono occupati da incapaci che fanno una cattiva televisione», Sandrone Dazieri, grande consumatore di serial americani, come scrittore di noir riconosce di aver imparato leggendo altri scrittori. Anche Antonio Scurati rifiuta l’etichetta di «nemico della televisione» che Petruccioli gli ha affibbiato accomunandolo a Pasolini e Moravia. La letteratura, secondo Scurati, ha fatto della forma televisiva il proprio contenuto, e con questo bisogna fare i conti, anche se ciò non preclude la critica, o meglio l’atteggiamento «agonistico». «Quella di oggi è, necessariamente, una letteratura dell’inesperienza, dove l’immaginario televisivo prevale sul vissuto diretto». Il risultato? «Un ritorno alla dimensione basale del narrare con il recupero dell’intreccio sulla forma e la chiusura di ogni esperienza di avanguardia o neoavanguardia».
«Corriere della sera» del 10 luglio 2007
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