Lo strappo di Brown: fumare cannabis è reato
di Beppe Severgnini
Campeggi, villaggi-vacanze, scuole di vela, corsi di lingua, spiagge, agriturismi, terrazze e giardini: l'Italia estiva è un'immensa, spensierata fumeria. Se non ci credete, chiedete ai vostri ragazzi. O l'hanno fatto, o l'hanno visto, o l'hanno annusato. C'è qualcosa d'irresponsabile nel modo in cui affrontiamo la diffusione endemica della cannabis: come se fosse una moda innocua, un altro trucco con cui la nostra generazione si rifiuta goffamente d'invecchiare. Perdonando ai figli — qualche volta condividendo con loro — una «canna» ogni tanto. Come fosse una monelleria, o un bicchiere di troppo in compagnia. In Gran Bretagna la pensavano più o meno così: ma hanno cambiato idea. Erano messi peggio di noi, in materia. Ma se ne sono accorti. Prendendo le distanze dal predecessore, il nuovo primo ministro Gordon Brown ha annunciato che la cannabis tornerà a essere considerata — e trattata — come una sostanza pericolosa. Nel 2004 era stata, di fatto, depenalizzata: qualcosa per cui si può essere, al massimo, redarguiti. Presto, non più: le conseguenze per chi la possiede saranno severe. Come potete leggere nella corrispondenza da Londra, una nuova, potente varietà di cannabis — detta «skunk» — sta producendo sintomi di paranoia e schizofrenia.
Gli psichiatri sono concordi: crolli nervosi e ricoveri sono aumentati di molto, e alcuni orrendi episodi di cronaca sembrano collegati alla diffusione della sostanza. Se gli «spliffs» — il nuovo nome dei vecchi «joints» — fossero innocui, non accadrebbero certe cose, no?
Il governo britannico può aver commesso un errore tre anni fa, quando ha deciso di concentrarsi sulla lotta alle droghe più pesanti; e magari può sbagliare adesso, facendo marcia indietro. Ma almeno registra le novità, studia il fenomeno, prende posizione, confessa (uno dopo l'altro, i ministri laburisti ammettono d'aver usato cannabis/ marijuana). Lo stesso stanno facendo gli inglesi, da quanto leggo e sento. Pro o contro: ma non indifferenti.
In Italia, la leggerezza in materia sta diventando indisponente. La cannabis — e la cocaina, purtroppo — sono argomenti adatti per una battuta alla radio, o un'allusione in televisione. Vizietti sociali: uno per giovani, l'altro per ricchi. Cose che non cambiano, cose che non contano. Forse dovremmo ringraziare lo «skunk» per averci svegliato. Quasi un'onomatopea, utile a farci capire che la droga modifica i comportamenti, e i nostri comportamenti non riguardano soltanto noi. Anche il numero assurdo di giovani morti sulle strade italiane va collegato alla droga, e non solo all'alcol. Chissà quante cose non raccontano, i medici legali, per non ferire una famiglia già distrutta dal dolore.
Ma una società adulta deve dirsele, certe cose. Deve ammettere che la droga leggera — se mai c'è stata — non è più tanto leggera, e resta una droga, e crea dipendenza, e ha effetti sul sistema nervoso che possiamo soltanto sospettare. I ragazzi più svegli l'hanno capito. Agli altri bisogna spiegarlo: con pazienza e tolleranza, ma senza incertezze. Non possiamo lasciare che l'educazione e l'informazione in queste materie venga impartita da un incosciente televisivo, da un cretinetti radiofonico o dalla casualità della Rete. Le nostre pigrizie — peggio, le nostre complicità — possono provocare disastri.
Scrivo da Brighton, sotto il cielo azzurro del Sussex, dove molti anni fa ho cominciato ad appassionarmi a questo Paese. Era l'estate del 1972: avevamo quindici anni, e sulla costa della Manica non c'erano solo Ziggy Stardust, Gary Glitter e sciami di deliziose coetanee scandinave. Giravano skin-heads violenti, alcol a go-go e droghe assortite: tutti i rischi e le tentazioni che un teenager deve conoscere, e gestire. Ma qualcuno a casa, prima di partire, ci aveva detto: questo è bene, questo è male. Poi toccava a noi decidere. Adesso tocca a loro decidere. Ma tocca a noi dirgli: ragazzi, non scherziamo. La droga è male, e fa male.
Gli psichiatri sono concordi: crolli nervosi e ricoveri sono aumentati di molto, e alcuni orrendi episodi di cronaca sembrano collegati alla diffusione della sostanza. Se gli «spliffs» — il nuovo nome dei vecchi «joints» — fossero innocui, non accadrebbero certe cose, no?
Il governo britannico può aver commesso un errore tre anni fa, quando ha deciso di concentrarsi sulla lotta alle droghe più pesanti; e magari può sbagliare adesso, facendo marcia indietro. Ma almeno registra le novità, studia il fenomeno, prende posizione, confessa (uno dopo l'altro, i ministri laburisti ammettono d'aver usato cannabis/ marijuana). Lo stesso stanno facendo gli inglesi, da quanto leggo e sento. Pro o contro: ma non indifferenti.
In Italia, la leggerezza in materia sta diventando indisponente. La cannabis — e la cocaina, purtroppo — sono argomenti adatti per una battuta alla radio, o un'allusione in televisione. Vizietti sociali: uno per giovani, l'altro per ricchi. Cose che non cambiano, cose che non contano. Forse dovremmo ringraziare lo «skunk» per averci svegliato. Quasi un'onomatopea, utile a farci capire che la droga modifica i comportamenti, e i nostri comportamenti non riguardano soltanto noi. Anche il numero assurdo di giovani morti sulle strade italiane va collegato alla droga, e non solo all'alcol. Chissà quante cose non raccontano, i medici legali, per non ferire una famiglia già distrutta dal dolore.
Ma una società adulta deve dirsele, certe cose. Deve ammettere che la droga leggera — se mai c'è stata — non è più tanto leggera, e resta una droga, e crea dipendenza, e ha effetti sul sistema nervoso che possiamo soltanto sospettare. I ragazzi più svegli l'hanno capito. Agli altri bisogna spiegarlo: con pazienza e tolleranza, ma senza incertezze. Non possiamo lasciare che l'educazione e l'informazione in queste materie venga impartita da un incosciente televisivo, da un cretinetti radiofonico o dalla casualità della Rete. Le nostre pigrizie — peggio, le nostre complicità — possono provocare disastri.
Scrivo da Brighton, sotto il cielo azzurro del Sussex, dove molti anni fa ho cominciato ad appassionarmi a questo Paese. Era l'estate del 1972: avevamo quindici anni, e sulla costa della Manica non c'erano solo Ziggy Stardust, Gary Glitter e sciami di deliziose coetanee scandinave. Giravano skin-heads violenti, alcol a go-go e droghe assortite: tutti i rischi e le tentazioni che un teenager deve conoscere, e gestire. Ma qualcuno a casa, prima di partire, ci aveva detto: questo è bene, questo è male. Poi toccava a noi decidere. Adesso tocca a loro decidere. Ma tocca a noi dirgli: ragazzi, non scherziamo. La droga è male, e fa male.
«Corriere della sera» del 20 luglio 2007
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