Una interpretazione innovativa
di Giuseppe Galasso
Un realista capace di sogni e di una visione etica
Valeva la pena di offrire una nuova edizione delle opere di Machiavelli? O che uno studioso come Corrado Vivanti vi spendesse le fatiche di una cura così felice del testo e del commento? E che un editore come Einaudi dedicasse a Machiavelli (un nome notissimo, ma non proprio da romanzo di moda) tre volumi della sua Pléiade italiana? Sì, valeva la pena. Specie da un Machiavelli tanto ben curato, c’è, infatti, sempre da apprendere, si guardi al passato o al presente o al futuro, e per molti motivi. Già, a lui si deve un momento di massima e duratura presa di coscienza dell’identità italiana, non in senso antropologico-culturale o metastorico e caratteriologico o etnico e völkisch, come ora così spesso e con tanto danno usa. Per lui il problema era storico e politico. L’Italia era innanzitutto una storia comune, non ricusabile. Nel narrare la storia della sua Firenze, a un certo punto si scusò coi lettori. Non riusciva a fermarsi su quella città senza parlare delle altre parti d’Italia. Così, quasi per inciso, fissava un fondamento storico e identitario dell’italianità. Ma l’Italia era anche una questione politica. Era ferma al suo frazionamento medievale mentre già ferveva la moderna lotta di potenza fra i maggiori Stati europei, placatasi solo, cinque secoli dopo, nel disastro della seconda guerra mondiale. Il suo futuro non poteva essere che nell’unità. Unita, evitava il giogo straniero e poteva figurare fra le potenze europee. Divisa, veniva «battuta, spogliata, lacera, corsa». Il suo grande conterraneo Guicciardini obiettò che il pluralismo era per l’Italia una ricchezza della storia e un destino. L’unità le avrebbe tolto vitalità e vivacità umana e civile. La storia diede poi ragione a Machiavelli. Con il Risorgimento e l’unità, il Paese ridivenne, dopo tre secoli, un soggetto politico autonomo in Europa e, recuperando un enorme ritardo, fu pure di nuovo una grande potenza economica. Ciò non prova che dell’unità gli Italiani abbiano fatto in tutto l’uso migliore; né è detto che Machiavelli avesse ogni ragione e Guicciardini ogni torto; e poi oggi nei popoli europei la visuale dell’Unione ha molto eroso (eroso, non soppresso!) la centralità del problema nazionale. Eppure, l’idea dell’unità è ancora dinanzi a noi come un problema e un dato storico non superabili semplicemente rinnegando e sciogliendo l’unità. Machiavelli, peraltro, vedeva bene anche i problemi della struttura politica e sociale del Paese. Vivanti va oltre il consueto dibattito se Machiavelli sia o non sia repubblicano, e illustra come a lui non siano sfuggiti i «meccanismi di irrigidimento e stratificazione gerarchica della società», che «erano destinati ad affermarsi nella vita italiana degli anni a venire», pur essendo deboli «gli artifici di ingegneria costituzionale» che suggeriva. Altri aspetti di lui meritano, inoltre, fatiche come questa di Vivanti. L’implicita, ma netta affermazione della politica, ad esempio, come mondo a sé fra i molti mondi dell’uomo, con la sua morale e la sua logica, che non lo rendono scisso e alieno dalla più generale logica e morale, ma impediscono di rinchiuderlo e castrarlo in altri recinti (e ciò è vero, malgrado qualche inane negazione della «scoperta» machiavelliana della politica). Oppure la felicità letteraria non solo di molte sue pagine storiche e politiche, tra le più alte e ineguagliate della prosa italiana, bensì anche di una commedia, la Mandragola, che ha dato alla magra storia del teatro italiano (troppo spesso più da leggere che da recitare) uno dei suoi testi più efficaci (Vivanti dice bene che si capisce qui come «il teatro fosse una forma dì arte congeniale a Machiavelli»). Oppure ancora l’aspra moralità di un realista crudo, ma non disincantato, che non arretra dinanzi ad alcuna piega realistica del discorso sull’uomo, ma resta capace di sogni e di utopie, e ammira i «buoni» di successo come i «cattivi», ai quali più spesso il successo sembra arridere, rivelando un fondo etico più vero delle prediche di molti sacerdoti del bene (e aveva ragione Giovanni Macchia di includerlo nella galleria dei «moralisti classici» da lui disegnata!). Chi percorre o consulta il Machiavelli di Vivanti ritrova questi e altri aspetti di uno scrittore divenuto un simbolo dell’Italiano (amorale, ma geniaccio!), del quale gli Italiani, per lo più, non sono stati e non sono, però, all’altezza. Il suo nome ha riscosso sempre consensi e dissensi. Ma le finestre che egli aprì sul moderno e sull’umano, sulla politica e sulla storia non si può più richiuderle né vi possono riuscire le varie delizie del pensiero del nostro tempo, così come non vi sono riuscite in cinque secoli le pressioni e oppressioni delle Chiese e degli Stati, del conformismo e del moralismo, che ne hanno condannato o deformato il nome e le idee.
«Corriere della sera» del 17 luglio 2007
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