di Dacia Maraini
È un piacere girare per la città di Berlino, pulita, alberata, piena di luoghi di ritrovo: lo Spree una volta sporco e negletto, oggi reso navigabile, i nuovi giardini dai prati ben tenuti, i parchi dai tanti alberi frondosi, i numerosi musei, il Reichstag rimesso a nuovo con una magnifica cupola di vetro. Ma soprattutto fa piacere vedere quanti spazi hanno dedicato i berlinesi alla memoria del Novecento, del loro Novecento nero. Con un coraggio che pochi popoli hanno avuto, si sono accinti, seriamente, con coscienza, a rivedere, ridiscutere e ricostruire il passato, tassello su tassello, per capire dove e come siano cominciati quegli errori che hanno travolto e portato allo sbaraglio un popolo colto e civile. Come è potuto succedere che una generazione intera si sia consegnata, mani e piedi legati, a un gruppo di criminali psicopatici? Come è potuto succedere, si chiedono i tedeschi di oggi, che folle di gente in buona fede sia corsa dietro il piffero magico di Hitler, incantata e non solo costretta, incapace di vedere ciò che stava accadendo? Come si è potuto accettare che i primi a essere eliminati nei campi di sterminio fossero i figli di un dio minore? Ossia gli storpi e i malati di mente, inseguendo l’idea imbecille e disumana di una razza pura da ogni malattia e menomazione? I tedeschi non hanno mai pensato di metterci una pietra sopra, come fanno altri popoli. Come facciamo un poco anche noi italiani, restii ad analizzare il passato. O lo esaltiamo ciecamente o lo denigriamo altrettanto ciecamente. Quello che manca è una riflessione pubblica argomentata, profonda, fatta di conoscenza vera, delle fonti, delle testimonianze, dei dati. Pochi per esempio sanno che in Italia fra il ‘40 e il ‘43 sono sorte decine di campi di concentramento per antifascisti con tanto di fili spinati e guardie armate e dove spesso si moriva di fame. Non c’è un museo che li ricordi. Solo da ultimo sono usciti alcuni libri (il più completo è quello di Spartaco Capogreco «I campi del duce», Einaudi), molto istruttivi, che danno un resoconto dettagliato di questi luoghi di segregazione: fra il ‘40 e il ‘43, in tempi precedenti all’invasione nazista, quindi pensati e gestiti da fascisti nostrani, se ne contano in tutta la Penisola ben 48. Uno dei più tristemente famosi è quello di Pistizzi in Lucania. E poi Ferramonti in Calabria e Bagno a Ripoli in Toscana. Dal ‘43 al ‘46, in regime di occupazione, i campi si sono riempiti di ebrei, ed erano soprattutto luoghi di passaggio, da dove i prigionieri venivano prelevati e portati in Germania o in Polonia per essere sterminati. Ma quante sono le testimonianze scritte? Un libro come «I sassi e le ombre» di Gianni Orecchioni, che narra storie di confino nell’Italia fascista, è passato inosservato. Il vecchio luogo comune «Italiani brava gente» continua a fare danni. Sarebbe l’ora che si guardasse in faccia la realtà, anche nei suoi aspetti più sgradevoli e si riconoscessero gli errori fatti. Per ricordare che la nostra è stata una dittatura non solo operettistica, ma crudele e ha praticato lo spionaggio, l’odio di classe, la censura, la tortura, l’omicidio e la segregazione di tanti innocenti nei suoi terreni recintati, dove la sola voce che si sentiva era quella dell’arroganza e della sopraffazione. Berlino ha quattro musei che si riferiscono alla Shoah, di cui uno bellissimo, fatto di infinite bare di cemento di varie forme, che si erge proprio nel centro della città. Sotto, si apre una galleria di fotografie che racconta nei dettagli tante storie di persecuzione di tedeschi contro tedeschi. Perché la memoria non evapori. Ma soprattutto per evitare di ricascarci. E da noi?
«Corriere della sera» del 3 luglio 2007
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