Un ritratto non convenzionale in «Il sorriso di Niccolò» di Maurizio Viroli
di Ezio Savino
Di machiavellico, oltre al marchingegno, al piano, al sotterfugio, c’è il sogno. Machiavellico nel senso che (forse) lo fece il più celebre Niccolò del Rinascimento, stando al resoconto che ne fornì agli amici raccolti intorno al letto di morte, nella sua Firenze, quel 21 giugno del 1527, quando lo stroncò, non ancora sessantenne, un attacco di peritonite.
Nella ben costruita visione, Machiavelli narrò di aver scorto due brigate d’uomini. La prima di malvestiti, contriti, sofferenti. «Chi siete?» domandò il morente. «Santi e beati» risposero quelli, «in viaggio per il Paradiso». La seconda era di gravi personaggi, paludati e impegnati in discorsi di filosofia politica: spiccavano Platone, Plutarco, Tacito. «Siamo i dannati» rivelarono quei saggi «e andiamo all’Inferno». Agli astanti esterrefatti, Niccolò spiega che preferisce aggregarsi alle anime perdute e patire nel fuoco discorrendo di regni e repubbliche, piuttosto che redimersi, e crepare - definitivamente - di noia. Brilla nell’aneddoto tutto l’uomo del Rinascimento. Ecco il suo culto dei classici, quegli antiqui con cui dialogare è consolante, perché sono prodighi di risposte non inquinate da quell’invidia, malignità e piccineria che spadroneggiano nel mondo dei vivi. I temi sul tappeto sono i più golosi: filosofia, politica, morale. Gli orizzonti mentali vasti e mobili, in espansione continua per la dinamicità della ricerca: non il particulare, insignificante e tedioso, ma gli universali teoremi che formano l’ossatura della storia umana, sempre pronta a replicarsi, se uno vi individua le leggi profonde del possente macchinario. Non ultimo, il sorriso della coltissima impertinenza, dell’autonomia intellettuale, che si concede con eleganza di gabbare i santi, anche sul limitare.
Ed è questa tagliente piega delle labbra che guida la biografia di Maurizio Viroli, Il sorriso di Niccolò, volta a illustrare il lato meno noto dell’ingegno italico, quello stesso che sfrondò gli scettri dei loro orpelli d’alloro, denudando le sostanze organiche che ne formano la truce natura: sangue e lacrime. Qui incontriamo l’uomo arguto, lo spiritaccio di rara simpatia. Di chi e di che cosa sorride ancora Niccolò? Dei capiufficio boriosi e colmi di sé, manager e dirigenti che rendono l’aria pesante con la loro presenza. Lui, Machiavelli, il creativo, aveva scoperto i segreti del team building, un gruppo di lavoro affiatato e gioioso.
Nella Seconda Segreteria fiorentina (addetta agli affari esteri) la sua direzione era tale che se egli mancava per impegni diplomatici, la «combriccola» si rammaricava: non per il carico aggravato, ma per un’assenza quasi insostenibile della battuta folgorante, del gesto spigliato, dell’esperienza che oliava i rugginosi ingranaggi dell’amministrazione, in attesa della serata, quando i buoni boccali e altri piaceri ripagavano dell’officiosa fatica. Se la ride della «repubblica degli zoccoli», litigiosa congrega di frati e chierici (Savonarola tra i primi) che, su su fino all’Olimpo romano, dirimeva le meschinità con il rozzo metodo di prendersi a scarpate. Sogghigna di quei pasticcioni per vocazione che gli attribuiscono, a torto, «il fine giustifica i mezzi», quando la politica è un’arte, un mestiere sublime, niente a che spartire con la morale: il principe è il costruttore in grande di stati, non il penitente, il moralista che mastica dubbi. Si fa beffe dei buontemponi inglesi (ma tra loro star come Marlowe e Shakespeare) che traviati da un pruriginoso ugonotto francese gli addossarono nequizie, veleno, frode, tradimento, assassinio, e storpiarono il suo nome nel diabolico Match-Evil «combina male».
Ma forse, insinua Viroli, la curva delle labbra è più per sé: una tenera armatura, contro la Fortuna, che è donna. Per domarla conviene batterla, e se non si può, almeno prenderla - con delicatezza - per i fondelli.
Nella ben costruita visione, Machiavelli narrò di aver scorto due brigate d’uomini. La prima di malvestiti, contriti, sofferenti. «Chi siete?» domandò il morente. «Santi e beati» risposero quelli, «in viaggio per il Paradiso». La seconda era di gravi personaggi, paludati e impegnati in discorsi di filosofia politica: spiccavano Platone, Plutarco, Tacito. «Siamo i dannati» rivelarono quei saggi «e andiamo all’Inferno». Agli astanti esterrefatti, Niccolò spiega che preferisce aggregarsi alle anime perdute e patire nel fuoco discorrendo di regni e repubbliche, piuttosto che redimersi, e crepare - definitivamente - di noia. Brilla nell’aneddoto tutto l’uomo del Rinascimento. Ecco il suo culto dei classici, quegli antiqui con cui dialogare è consolante, perché sono prodighi di risposte non inquinate da quell’invidia, malignità e piccineria che spadroneggiano nel mondo dei vivi. I temi sul tappeto sono i più golosi: filosofia, politica, morale. Gli orizzonti mentali vasti e mobili, in espansione continua per la dinamicità della ricerca: non il particulare, insignificante e tedioso, ma gli universali teoremi che formano l’ossatura della storia umana, sempre pronta a replicarsi, se uno vi individua le leggi profonde del possente macchinario. Non ultimo, il sorriso della coltissima impertinenza, dell’autonomia intellettuale, che si concede con eleganza di gabbare i santi, anche sul limitare.
Ed è questa tagliente piega delle labbra che guida la biografia di Maurizio Viroli, Il sorriso di Niccolò, volta a illustrare il lato meno noto dell’ingegno italico, quello stesso che sfrondò gli scettri dei loro orpelli d’alloro, denudando le sostanze organiche che ne formano la truce natura: sangue e lacrime. Qui incontriamo l’uomo arguto, lo spiritaccio di rara simpatia. Di chi e di che cosa sorride ancora Niccolò? Dei capiufficio boriosi e colmi di sé, manager e dirigenti che rendono l’aria pesante con la loro presenza. Lui, Machiavelli, il creativo, aveva scoperto i segreti del team building, un gruppo di lavoro affiatato e gioioso.
Nella Seconda Segreteria fiorentina (addetta agli affari esteri) la sua direzione era tale che se egli mancava per impegni diplomatici, la «combriccola» si rammaricava: non per il carico aggravato, ma per un’assenza quasi insostenibile della battuta folgorante, del gesto spigliato, dell’esperienza che oliava i rugginosi ingranaggi dell’amministrazione, in attesa della serata, quando i buoni boccali e altri piaceri ripagavano dell’officiosa fatica. Se la ride della «repubblica degli zoccoli», litigiosa congrega di frati e chierici (Savonarola tra i primi) che, su su fino all’Olimpo romano, dirimeva le meschinità con il rozzo metodo di prendersi a scarpate. Sogghigna di quei pasticcioni per vocazione che gli attribuiscono, a torto, «il fine giustifica i mezzi», quando la politica è un’arte, un mestiere sublime, niente a che spartire con la morale: il principe è il costruttore in grande di stati, non il penitente, il moralista che mastica dubbi. Si fa beffe dei buontemponi inglesi (ma tra loro star come Marlowe e Shakespeare) che traviati da un pruriginoso ugonotto francese gli addossarono nequizie, veleno, frode, tradimento, assassinio, e storpiarono il suo nome nel diabolico Match-Evil «combina male».
Ma forse, insinua Viroli, la curva delle labbra è più per sé: una tenera armatura, contro la Fortuna, che è donna. Per domarla conviene batterla, e se non si può, almeno prenderla - con delicatezza - per i fondelli.
«Il Giornale» dell’11 maggio 2007
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