Variazioni sull’Eterno
di Raffaele La Capria
Perché dobbiamo vivere come se fossimo immortali
Noi tutti viviamo come se non sapessimo di dover morire, è stato detto ed è vero. Meno male. Se prendessimo la cosa sul serio (come meriterebbe), chi muoverebbe un dito? Chi si darebbe da fare per ottenere questo o quello? E dove finirebbe il desiderio di amore, di potere, di fama e di gloria? Dunque, vivere come se si fosse immortali è una prerogativa della giovinezza. È quando si è giovani che si desidera e accanitamente si persegue tutto quello che ho detto. La mia giovinezza è durata a lungo. A 65 anni, l’età della pensione, ho comprato una casetta di contadini a Capri, nella campagna sotto il Monte Solaro, per raggiungerla bisognava salire circa 200 scalini. Ce ne voleva di ottimismo per programmare un futuro in quella casa alta sul panorama dei Due Golfi, per riadattarla e trasformarla secondo il mio gusto! Era una casa col minimo di superficie abitabile e il massimo di spazio visibile davanti, e quando la giornata era limpida lo sguardo arrivava fino al Capo Palinuro, azzurro sull’orizzonte. Spesso è apparsa sui giornali una mia fotografia seduto in terrazza tra due colonne bianche stagliate nel cielo, il cappello di paglia, le scarpe di corda. Come la odio quella fotografia! Falsifica tutto il mio passato nella casa caprese. Non me ne stavo sul terrazzo in quella posa indolente da ozioso in vacanza. No, non era sempre così! Quel terrazzo era il mio piccolo Tibet, dove mi rifugiavo ogni giorno sul far della sera in una specie di muta preghiera, come se da lontano mi fosse arrivato il richiamo di un muezzin. Mentre sentivo le voci della casa risuonare discrete intorno a me, mentre il mio cane Guappo profilato come Anubi l’egizio fiutava gli odori della sera e con le orecchie tese ne raccoglieva gli impercettibili sussurri, mentre dolcemente ronfava la tigratina sulle mie ginocchia, piena di gratitudine per la cuccia che le offrivo, mentre una barca filava in lontananza sul mare e il rumore del motore veniva a tratti nell’aria fino a me, tutto questo mi sembrava immerso nel mistero. Ne sentivo insieme la bellezza e la fugacità, e allora il pensiero della morte, non come cosa temuta ma come presenza che dava valore al momento che stava trascorrendo, arrivava di soppiatto. A volte quando arrivava questo pensiero chiudevo gli occhi immaginando il dopo, l’Eterno. Sparivano i rumori discreti della casa, le amorose presenze della moglie e della figlia che parlottavano di là, le loro risatine, spariva il profilo egizio di Guappo e le fusa della gattina, spariva la barca che filava lontano sul mare e spariva il bot-bot del suo motore, e subentrava un silenzio immenso dove pian piano anche io sparivo, anzi mi annullavo. Poi di colpo riaprivo gli occhi e tutto ritornava com’era. Ed era bellissimo, perché mi dicevo in quel momento, tutto poteva non essere, non esserci più quando riaprivo gli occhi, e invece c’era. E se c’era era bene. Tutto ciò che è, è bene per il solo fatto di esserci. Esserci vuol dire aver vinto le forze del nulla, il male radicale, sempre in agguato. Questo gioco dell’apparire e scomparire delle cose, era uno di quelli che più mi divertivano, con un senso di meraviglia e di timore, quand’ero bambino. Lo facevo con mia madre, e una volta imparato il gioco chiedevo sempre di ripeterlo con una delle poche parole di cui allora conoscevo il magico significato, la parola «ancòra». Mia madre spariva dietro una tenda, io dall’altra parte sentivo: «Non c’è più!». Aspettavo col cuore che mi batteva perché per me davvero lei era sparita. «Eccola!», e lei ricompariva abbracciandomi stretto. Ridendo battevo le mani sollevato e ripetevo: «Ancòra!». E così si andava avanti. Apparire e sparire è una sensazione radicata. Quando sappiamo che dobbiamo morire e che morendo tutto sparisce, tutto quello che c’è e che ci appare prende vita, riscuote riso e applauso... Superati gli ottanta ho lasciato la casa di Capri, salire sul mio piccolo Tibet per 200 scalini era diventata un’impresa ardua per un signore della mia età. Ma questo ha dato inizio a un nuovo rapporto tra me e quel pensiero che tutti dobbiamo morire. Perché mentre prima era soltanto un’acquisizione della coscienza, e ho detto quali ne erano le conseguenze positive, dopo è diventato rassegnazione. Non più sapere che moriremo, ma rassegnarsi a poco a poco a una fine vicina. Quanto vicina? Il problema della vicinanza è un altro mistero, e può essere rivelato nei modi più banali. Per esempio ultimamente vado per una visita dal dottore, si scopre che sono abitato dall’Estraneo, si sa che quest’Estraneo gioca a rimpiattino con quelli che come me hanno superato una certa età. Si sa che anche lui, l’Estraneo, vuol crescere negli anni, ma mi dice il dottore di stare tranquillo. «Lei quanti anni ha? Ottantacinque? Benissimo, allora non ci sarebbe neppure bisogno di cura perché arriverà prima lei al traguardo». Insomma, vuol dire il dottore sorridendo, l’Estraneo non ce la farà a svilupparsi fino ad essere pericoloso perché la morte, la mia morte, lo fregherà. Arriverà certamente prima di lui. Bella soddisfazione! Ecco, così mi è stato rivelato il senso della vicinanza, così è nata la persuasione. Una persuasione che non è solo sapere che tutti dovremo morire - sentimento da tutti in modo diverso condiviso - ma significa rassegnarsi alla propria morte, vicina, anzi prossima ventura, preparandosi adeguatamente, col distacco e con la distrazione vigilante, alla sua inevitabilità.
«Corriere della sera» dell’8 luglio 2007
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