A proposito della mozione avversa alla compravendita del corpo umano
di Francesco D'Agostino
Nello scorso febbraio su tutti i giornali europei comparve una notizia, subito ripresa dalla stampa italiana, in merito alla decisione dell’inglese "Human Fertilisation & Embriology Authority" (Hfea) di incentivare la ricerca sugli ovociti nel Regno Unito, legittimando l’offerta della cifra di 250 sterline alle donne disposte a "donarli". La notizia suscitò immediatamente dure critiche a diversi livelli, tra cui, particolarmente autorevoli, quelle del ministro Livia Turco e di Stefano Rodotà e attivò immediatamente l’attenzione del Comitato Nazionale per la Bioetica, da poco ricostituito da Romano Prodi sotto la direzione di Francesco Paolo Casavola. Tre membri del Comitato, Assunta Morresi, Laura Palazzani e Lucetta Scaraffia (non a caso tre donne), decisero di presentare subito al Comitato una mozione, per ribadire con forza il principio generalissimo della non commerciabilità del corpo umano, sia nella sua interezza, sia nelle sue singole parti (come appunto gli ovociti). La mozione venne subito portata all’attenzione di tutti i membri del Comitato nazionale di bioetica: alcuni rilevarono che la notizia data dalla stampa era imprecisa, dato che dall’Hfea le 250 sterline sarebbero state intese come rimborso-spese per le donne "donatrici" e non come un vero e proprio "pagamento" a loro favore, che le avrebbe fatto diventare vere e proprie "venditrici" dei loro ovociti. Quale che fosse la corretta interpretazione della decisione inglese, si imponeva però all’attenzione del Comitato l’evidenza di una martellante propaganda presente in Internet (e purtroppo anche sulla stampa) a favore della compravendita e l’opportunità che comunque lo stesso Comitato la stigmatizzasse davanti all’opinione pubblica e la denunciasse come lesiva della dignità e della salute delle donne. Le promotrici della mozione, pertanto, insistettero nel chiedere che la mozione fosse votata, sottolineando il fatto che comunque nel testo non si faceva alcun riferimento alla vicenda inglese, ma si voleva semplicemente riaffermare un principio bioetico fondamentale, quello per il quale il corpo umano non deve mai e poi mai divenire fonte di lucro. Nella mia ingenuità, quando lessi il testo della mozione, pensai che avrebbe ottenuto un consenso unanime, immediato, in qualche modo "scontato". Non è andata così. Dal primo momento in cui è stata proposta, la mozione ha raccolto sì forti consensi, ma si è anche scontrata con ostilità implicite ed esplicite, spesso confusamente argomentate e a volte palesemente pretestuose: è mal scritta – si è detto –, è superflua, ha per oggetto un problema marginale o addirittura inesistente, esagera i rischi per la salute delle donne, potrebbe essere usata per limitare subdolamente la libertà della ricerca scientifica... Alcuni membri del Comitato sono arrivati a motivare il loro mancato sostegno alla mozione, sostenendo che la condanna della compravendita in essa contenuta era troppo blanda (sic!); e ci sono anche stati coloro che si sono opposti alla mozione, dichiarando di non condividere affatto, in linea di principio, la condanna della compravendita di parti del corpo umano. Incredibilmente, la discussione sulla mozione è così slittata di mese in mese, da marzo ad aprile, da maggio a giugno. Si è alla fine arrivati alla seduta plenaria del 13 luglio, l’ultima programmata prima della pausa estiva dei lavori del Comitato, nella quale finalmente il presidente Casavola ha posto ai voti la mozione, impedendo ogni ulteriore tattica dilatoria.
Il risultato della votazione è stato correttamente riportato da Avvenire lo scorso sabato 14 luglio (nell’assordante silenzio degli altri principali quotidiani italiani): esso è stato positivo, ma lascia l’amaro in bocca. A fronte di 17 voti a favore della mozione, si sono avuti ben 9 voti contrari e 4 astensioni. Considerando che il no alla commercializzazione del corpo umano, oltre ad essere principio acquisito in tutta la tradizione etica e giuridica occidentale e a rappresentare uno dei punti più nitidi dell’etica di Kant, cioè del più alto paradigma della cosiddetta "etica laica", appare ribadito esplicitamente e con forza dalla Convenzione di Oviedo e dalla Carta europea dei diritti, la presenza di un così alto numero di opinioni dissenzienti nel nostro Comitato desta stupore profondo. Non possiamo consolarci, ripetendoci che questo voto è segno di un rispettabile pluralismo bioetico che caratterizzerebbe il Comitato. Il rispetto, sempre doveroso verso chi la pensa diversamente, non può divenire rispetto per prese di posizione che, contraddicendo la dignità umana, non possono che produrre inevitabilmente esiti di male morale e sociale. Il no alla compravendita del corpo umano e delle sue parti è un principio bioetico e biogiuridico fondamentale o – per usare un’espressione oggi di moda – un valore non negoziabile: spiace che tanti membri del Comitato (anche se fortunatamente rimasti in minoranza) non siano riusciti, evidentemente a causa di una loro singolare cecità bioetica, a percepirlo.
Il risultato della votazione è stato correttamente riportato da Avvenire lo scorso sabato 14 luglio (nell’assordante silenzio degli altri principali quotidiani italiani): esso è stato positivo, ma lascia l’amaro in bocca. A fronte di 17 voti a favore della mozione, si sono avuti ben 9 voti contrari e 4 astensioni. Considerando che il no alla commercializzazione del corpo umano, oltre ad essere principio acquisito in tutta la tradizione etica e giuridica occidentale e a rappresentare uno dei punti più nitidi dell’etica di Kant, cioè del più alto paradigma della cosiddetta "etica laica", appare ribadito esplicitamente e con forza dalla Convenzione di Oviedo e dalla Carta europea dei diritti, la presenza di un così alto numero di opinioni dissenzienti nel nostro Comitato desta stupore profondo. Non possiamo consolarci, ripetendoci che questo voto è segno di un rispettabile pluralismo bioetico che caratterizzerebbe il Comitato. Il rispetto, sempre doveroso verso chi la pensa diversamente, non può divenire rispetto per prese di posizione che, contraddicendo la dignità umana, non possono che produrre inevitabilmente esiti di male morale e sociale. Il no alla compravendita del corpo umano e delle sue parti è un principio bioetico e biogiuridico fondamentale o – per usare un’espressione oggi di moda – un valore non negoziabile: spiace che tanti membri del Comitato (anche se fortunatamente rimasti in minoranza) non siano riusciti, evidentemente a causa di una loro singolare cecità bioetica, a percepirlo.
«Avvenire» del 17 luglio 2007
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