16 dicembre 2022

C'è anche un profitto buono e non si chiama mai usura

di Luigino Bruni
C’era un tempo in Europa quando i Papi emettevano Bolle per risolvere controversie su banche e interessi. Quando "l’economia della salvezza" e "la salvezza dell’economia" erano entrambe al centro dell’impegno dei cristiani, dell’intelligenza dei teologi, dell’osservazione della pubblica opinione. Quando i dibattiti sull’eucarestia e quelli sulla legittimità dell’usura avevano la stessa dignità teologica e umana, perché la Chiesa e la gente sapevano bene che si viveva e si moriva anche per la mancanza di credito o per troppi prestiti cattivi.
Dibattiti talmente accesi che fu necessaria una Bolla papale per chiudere (senza riuscirci del tutto) la lunga controversia attorno ai Monti di Pietà. La querelle riguardava in particolare il prestito a interesse che praticavano quei banchi, che gli avversari consideravano usuraio. Leone X, pur riconoscendo come possibili le ragioni degli oppositori, definì legittimo per quelle banche richiedere il pagamento di un interesse sul prestito, «purché destinato esclusivamente a le spese degli occupati e di altre cose attinenti al mantenimento dell’organizzazione, purché non ne venga ricavato alcun profitto» (Inter Multiplices, 1515). La bolla affermava dunque che i Monti non incorrevano nel peccato di usura («pecunias licite mutuant»), che non erano istituzioni usuraie per il solo fatto di chiedere il pagamento di un interesse (in genere attorno al 5% annuo). La stessa Bolla ribadiva la definizione dell’usura: «Perché questo è il vero significato dell’usura: quando una cosa produce guadagno per il solo uso della cosa stessa ("ex usu rei"), senza alcun lavoro, alcuna spesa o alcun rischio». Alcun lavoro ... alcun rischio.
Il prestito a interesse dei Monti di Pietà venne considerato non usuraio a condizione dunque che l’interesse non fosse espressione di uno scopo di lucro, ma il legittimo rimborso delle spese di funzionamento della banca. Tanto che, nell’ultima sessione della Bolla, Leone X non manca di specificare che l’ideale resta il non-pagamento dell’interesse (almeno parziale) da parte dei poveri, quando fondi pubblici o filantropici potessero coprire le spese di gestione in modo che non farle gravare «interamente sui poveri». Il centro della polemica era dunque lo scopo di quell’interesse, lo "spirito" di quella piccola somma aggiunta al capitale. Lo spirito non doveva essere il lucro, ma la copertura dei costi.
Ma era proprio questo "spirito" a essere messo in questione dagli oppositori dei minori francescani. Tra questi il monaco Nicolò Bariani, piacentino, che nel 1494 pubblicò un libretto che fece molto rumore: De Montis Impietatis. Bariani era agostiniano, quindi formato alla visione biblica e patristica su denaro e interesse. Per lui ogni somma di denaro restituita che eccedeva il capitale prestato era usura, quindi illecita, incluse quelle dei Monti di Pietà. I francescani invece distinguevano. Come? E in base a quale "teoria" potevano distinguere un fiorino usuraio da uno legittimo?
Ciò che è certo è che quel dibattito tra teologi su economia e usura fu molto appassionante, controverso, duro, aspro, fin dal XIII secolo. Ma soprattutto fu geniale, e ci lascia ancora sbigottiti a distanza di molti secoli per l’intelligenza e la ricchezza. I francescani, prima di essere teologi, erano attenti osservatori della realtà, soprattutto quella delle nuove città italiane ed europee; erano meno interessati alle dispute astratte e deduttive (incluse quelle aristoteliche), e molto più alla comprensione dei comportamenti effettivi della gente. Per questo osservavano le prassi dei mercanti, conoscevano i cambiamenti economici e civili in un tempo molto dinamico. E facevano un’operazione essenziale in ogni tentativo di comprensione della realtà complessa: il discernimento. Distinguevano, separavano, facevano ordine tra fenomeni che potevano apparire simili in certe cose ma erano molto diversi in altre, e quali cose-dimensioni erano davvero quelle decisive in quel dato tempo e in quel dato luogo. In quei laboratori che erano le città mercantili dei secoli XIII-XV, capirono, ad esempio, che il mercante che nel contratto include nel prezzo del bene un valore aggiunto per compensarlo dal rischio di imprese molto incerte via mare o terra, o il cambiavalute che a Genova o a Venezia doveva tener conto delle oscillazioni delle monete e delle inflazioni, facevano mestieri diversi dal prestatore professionista di denaro a usura che se ne stava tranquillo e al caldo nel suo banco (come affermava Alessandro d’Alessandria, Tractatus de usuris, inizio XIV sec.). Tutti e tre pagavano o chiedevano interessi sul denaro, è vero, e questo elemento comune era sufficiente a molti monaci predicatori per condannarli tutti come usurai; ma, dicevano i francescani, le tre situazioni erano molto diverse nella sostanza benché simili nella forma. E questo fa emergere qui il gran tema della differenza tra profitto e rendita.
Prima di tutto, però, dobbiamo prendere sul serio una strana amicizia medioevale, quella tra i francescani e i mercanti. Francesco inizia la sua storia in Assisi distinguendosi e rifiutando l’economia di suo padre Bernardone, un mercante; i francescani, poco dopo, si ritrovano alleati dei mercanti nelle città italiane e europee del Duecento e Trecento. Altro paradosso generativo. Intanto c’è, anche qui, un dato concreto: diversamente da altri ordini religiosi, i francescani avevano sviluppato più di altre famiglie religiose, fin dai tempi di Francesco, un ordine secolare: il Terz’Ordine. Avevano dentro la loro comunità carismatica dei laici, e tra questi molti mercanti. Li conoscevano, erano loro fratelli. Prima di giudicarli erano i loro amici, e ne conoscevano il cuore. Non è da escludere che le prime parole buone sul mercato e sul profitto siano nate durante qualche pasto di fraternità, quando qualche mercante-fratello si era confidato con loro parlando del suo mestiere difficile e anche rischioso. E avendo visto l’anima di un mercante quei teologi hanno visto un’anima diversa del mercato. Hanno prima amato e stimato i mercanti poi i mercati. E così li hanno capiti, ieri e oggi, perché non c’è vera conoscenza senza amore-agape. In tutto questo c’è un forte messaggio di teologia cristiana: la storia non è fiction, la Provvidenza parla anche dentro gli avvenimenti concreti, lo Spirito spira pure dentro un contratto di un commerciante e nella bottega di un artigiano.
E così, guardando e amando il mondo, essi si accorsero che quei mercanti non erano usurai, anche quando dovevano chiedere o pagare interessi. Ecco il tema dello spirito di quel lucro, dello spirito di quel capitalismo. E da lì si convinsero che era la stessa idea di condanna formale e astratta dell’interesse sul denaro che andava ripensata, perché non tutti gli interessi erano uguali. C’era un tipo di interesse che era soltanto giusta compensazione per alcuni aspetti inerenti alla stessa attività economica e commerciale. Capirono che se i mercanti non includevano la remunerazione del rischio dentro i loro contratti, quell’attività non si poteva sviluppare, e sarebbe stato un grave danno per le città - i francescani avevano ben chiara la funzione di Bene comune dei mercanti onesti (i "boni" mercanti). Pagare un premio assicurativo per le imprese marittime (foedus nauticus) o a chi prestava i capitali per una lunga missione commerciale in Oriente, era ben diverso dal prendere denaro a usura da un banco. Ciò che era usuraio era lo spirito, non la somma materiale di denaro in sé pagata per interesse, perché qualche volta quel denaro era semplicemente una componente collaterale, necessaria e buona di alcune operazioni imprenditoriali.
Se, poi, quel mercante si trovava nelle condizioni di poter prestare del denaro ad altri mercanti - mercanti e banchieri all’inizio erano attività molto intrecciate -, ecco fare la sua comparsa un’altra buona ragione per chiedere un pagamento di un interesse: il lucro cessante. Se, cioè, il mercante Lapo presta 1.000 fiorini al collega Duccio e così rinuncia lui stesso a usare quei denari, è lecito che Duccio ricompensi con un interesse Lapo per il guadagno che il suo collega non ha potuto ottenere a causa del suo prestito - l’equivalente del moderno "costo opportunità". Questo interesse è dunque buono, a condizione però che chi prestava il denaro fosse un mercante e che quindi l’uso alternativo ipotetico fosse un uso produttivo, non sterile prestito. Ciò che sembrava essere usura, nel caso di buoni mercanti era invece solo il compenso per l’incertezza, per l’inflazione, la variabilità dei mercati. Tanto che in molte città i mercanti erano annoverati tra i pauperes, sebbene non indigenti, perché dipendenti radicalmente dall’incertezza. Eccoci allora alla distinzione decisiva: quella tra profitto e rendita, oggi totalmente dimenticata. Per quei francescani teologi ed economisti se l’interesse ha la natura di profitto del buon mercante è lecito; se invece quella stessa somma di denaro ha la natura di rendita, è usura. Il profitto è la remunerazione per l’attività lecita e rischiosa del mercante, un guadagno che giunge come premio del suo lavoro, rischio, della perizia, dell’innovazione, del suo prezioso mestiere. La rendita invece è un guadagno che giunge per il solo fatto di esercitare una posizione di potere sul denaro, senza lavoro e senza correre alcun vero rischio d’impresa. Ecco perché fra Angelo da Chivasso, discutendo delle penalità pecuniarie che potevano essere aggiunte a un mutuo per tutelarsi dalla ritardata restituzione, afferma che si tratta di una pretesa legittima, a meno che ad avanzare tale richiesta sia una persona che «abitualmente presta a usura».
Ma come si fa a distinguere il tipo di mercante che presta denaro? È qui che i canonisti e teologi francescani diedero il loro meglio, scrivendo lunghe digressioni sulle eccezioni dell’usura e sulle mille casistiche concrete. Un ruolo essenziale lo svolgeva sempre la fama, un giudizio collettivo espresso da una comunità esperta composta dai mercanti onesti. Non capiamo l’etica economica medioevale e della prima modernità senza questa dimensione collettiva del mercato e dei mercanti. Il corpo sociale, con la sua intelligenza diffusa sapeva distinguere un usurario da un mercante. Nell’economia, e in ogni ambito complesso della vita, l’attività economica che uccide e quella che fa vivere si intrecciano ogni giorno, in ogni luogo. Solo chi sa entrare, per amore della propria gente, nelle midolla vive di questo intreccio riesce a servire l’economia e la vita. Il resto è, ieri e oggi, astratto moralismo, che finisce quasi sempre per nuocere alle persone oneste. Tutto questo l’Economia di Francesco lo sapeva, l’Economia di Francesco lo sa.
«Avvenire» del 21 novembre 2020

01 dicembre 2022

Aiuto, i nostri romanzi hanno perso le emozioni

di Elena Dusi
Lo "spirito del tempo" è ineffabile per definizione. Ma un motore di ricerca - anche in questo - può essere d'aiuto. Prendiamo Google e i cinque milioni di libri pubblicati tra il 1900 e il 2000 che sono stati digitalizzati e riposano nella sua pancia. In questi 500 miliardi di parole, nel corso del secolo, le espressioni legate alle emozioni sono diventate sempre più rare. I libri che trasudano sentimento non mancano certo, eppure pochi di noi esiterebbero a definire il nostro "spirito del tempo" come orientato verso un progressivo inaridimento.
Le galassie di parole legate a rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa sono diventate sempre più rare nei nostri libri. Lo ha calcolato un gruppo di antropologi e informatici coordinato dall'università di Bristol. A resistere è solo la paura. La presenza della più ancestrale fra le nostre emozioni è scesa nel corso del secolo, ma siè ripresa dagli anni ' 80. E la curva della gioia - si legge nello studio uscito oggi sulla rivista Plos One - segue un andamento sorprendentemente vicino agli avvenimenti storici del '900. Le espressioni di felicità in letteratura aumentano nei primi due decenni del secolo per poi inabissarsi con la Grande Depressione e l' arrivo delle dittature fino al conflitto. Il dopoguerra segna una ripresa, annullata negli anni '70.
Al ritorno di un certo ottimismo si assiste dagli anni '80 al 2000. «Abbiamo fotografato un andamento. Non ci azzardiamo a dare interpretazioni» spiega Alberto Acerbi, antropologo all'università di Bristol e coordinatore dello studio. «Le parole che esprimono emozioni hanno subito un calo eclatante. I dati sono nitidi, specialmente in corrispondenza degli eventi storici. Ma per legare le nostre osservazioni all'emergere di correnti letterarie avremmo bisogno dell'aiuto degli esperti». Lo studio è limitato ai libri pubblicati in inglese.
Per quanto riguarda l'Italia, il linguista Tullio De Mauro ha un'impressione diversa. «Studiare la frequenza dell'uso delle parole può aiutarci a capire come varia una cultura. Ma se dovessi dare un giudizio sulla lingua italiana, direi che è sempre più ricca di espressioni legate a sentimenti e di termini astratti. Crescono in maniera sorprendente le parole emotive e volgari insieme. L'"Antilingua" descritta da Italo Calvino (l'italiano astratto e vuoto parlato dal brigadiere) ha preso il sopravvento sulla lingua concreta del portiere. È come se chi scrive in italiano fosse preda di una sorta di "terrore semantico"».
Scavando in quella zuppa di parole che Google ha riversato nel suo database (i libri, pari al 4 per cento di tutti i volumi stampati nella storia, sono stati digitalizzati, ma non sono leggibilie l'elenco dei titoli è segreto per non violare i diritti d' autore), è emerso anche che la letteratura americana resta più emotiva rispetto a quella british. «Mentre in Gran Bretagna andavano le storie di spionaggio di Le Carré e Fleming, gli Usa avevano Vonnegut e Vidal» spiega Acerbi. In passato con metodi simili si era visto che l'"umore" degli utenti di Twitter può essere usato per prevedere la borsa o i risultati elettorali. Che diventare famosi oggi è molto più facile rispetto a un secolo fa, ma la popolarità ha durata brevissima. Che Dio non è morto, ma appare un terzo delle volte nei nostri libri rispetto al 1850 e che le canzoni rock americane dagli anni '80 usano spesso la parola "io", poco il "noi" e sono sempre più ricche di "odio", "uccidere" e "vaffanculo". Lo spirito del tempo, chiaramente.
«la Repubblica» del 21 marzo 2013

21 settembre 2022

La politica di Sancho Panza

di Alessandro D’Avenia
Quando il duca e la duchessa d’Aragona sentono parlare di don Chisciotte e dello scudiero Sancho Panza vogliono burlarsi di loro e così creano false avventure per i due bizzarri protagonisti del romanzo di Cervantes. Tra questi inganni c’è quello di assegnare a Sancho ciò che ha sempre desiderato e che il suo padrone gli ha promesso per i suoi servigi: un’isola.
E così i duchi affidano a Sancho la fantomatica isola di Barattaria, finzione che lui crede reale perché viene insediato in un sontuoso palazzo — si tratta solo di uno dei palazzi dei duchi in un abitato di mille abitanti — da cui governare ciò che non ha mai visto di persona. L’episodio di Sancho, nella seconda parte del capolavoro di Cervantes, mi è tornato in mente come sintesi di una campagna elettorale fatta di promesse spesso illusorie e di politici che non sono diversi da noi che ce ne lamentiamo sempre, ma rispecchiano, nel bene e nel male, chi e come siamo.
Così un contadino si ritrova governatore di un’isola che è solo la finzione creata dai veri potenti per farsi beffe di lui che si illude di poterla amministrare standosene a palazzo, tanto da scrivere alla moglie: «Tra pochi giorni partirò per il governo, a cui vado con un vivissimo desiderio di far quattrini». L’episodio mette a nudo, con tragica ironia, sia il volto stupido sia quello oppressivo del potere. Come va a finire?
Il potere (come sostantivo) serve a porre altri in condizione di potere (come verbo). Il mio potere di insegnante ha lo scopo di mettere i miei studenti in condizione di poter essere se stessi e procurarsi autonomamente ciò che serve per riuscirci per poi mettersi, con la loro unicità, a servizio della società. Se il potere non ha questo effetto generativo, diventa controllo ed è degenerativo: non rende l’altro se stesso ma lo usa e lo rende impotente, sterile.
La politica è quindi quella parte delle creazioni umane (cultura) che consente di armonizzare l’unicità dei singoli con la società: dà la possibilità di scoprire e mettere al servizio della comunità il modo irripetibile in cui l’umano si realizza in ciascuno di noi. Se questo non accade è perché il potere è tanto tirannico quanto burocratico, cioè per chi lo detiene è «il potere per il potere», il fine è affermare se stessi e la comunità un mezzo, per chi è sottomesso è «il potere di nessuno», che ostacola e blocca l’iniziativa personale perché non ha nessun desiderio che altri abbiano potere.
Se è vero che la politica serve a incoraggiare la creatività e l’azione personali, liberandole da ciò che le blocca, allora oggi la politica conosce una crisi profonda. A scuola, per esempio, ci sono problemi incancreniti da decenni che, seppur evidenti, non vengono affrontati: lo Stato si riduce a un participio passato. Di fronte all’impossibilità di risolvere questi problemi con un po’ di coraggio e buon senso, il popolo si disaffeziona alla politica che appare superflua e diventa propaganda, come dimostra una campagna elettorale ridotta spesso a televendita. Invece il politico, e in generale qualsiasi creatore, è colui la cui immaginazione e opera sono capaci di attivare l’azione assopita degli altri uomini, accendendo focolai creativi: genera perché è generoso.
In queste settimane ho visto pochi atti creativi che metteranno in moto un futuro e molte promesse di «piacere». Il piacere è la strategia della natura per l’autoconservazione, l’azione politica è chiamata invece ad andare oltre il mantenimento dei più forti e a spezzare con il nuovo (dalla ruota alla democrazia, dal fuoco alla letteratura) le catene del «è tutto inutile».
Oltre alla rara presenza di un discorso che esuli dal pragmatismo dell’immediato di stampo quasi esclusivamente economico, non ho ascoltato quasi nulla di «creativo» nei due ambiti culturali su cui misuro la civiltà di una società: ospedali e scuole. I luoghi della cura rendono subito evidente quanto si è capaci di guidare una comunità. Oggi per fare un esame clinico urgente bisogna aspettare mesi, vari studenti hanno iniziato l’anno scolastico senza i professori di alcune materie, diversi alunni con bisogni specifici non hanno l’insegnante di sostegno... Come fa il cittadino a vivere creativamente se è tutto impegnato a sopravvivere?
Al mattino del giorno in cui gli spararono (il 15 settembre 1993), Padre Pino Puglisi, professore di religione del mio liceo ucciso dalla mafia quando iniziavo il quarto anno, era andato per l’ennesima volta negli uffici del comune a chiedere che, in un quartiere popoloso come Brancaccio di cui era parroco, si aprisse una scuola media nei locali dove la mafia svolgeva attività di spaccio e prostituzione. Quella scuola è stata aperta solo dieci anni dopo perché i politici locali erano collusi con la mafia: c’è voluta la vita di un uomo per aprire un «nuovo» corso. Leggo in queste ore che le opere per evitare le esondazioni del Misa che ha travolto tante vite nelle Marche sono state finanziate nel 1986 ma sono rimaste ferme. È triste ma da noi finché non muore qualcuno la politica non si muove.
«Lasciatemi tornare alla mia antica libertà: lasciatemi andare a ricercare la mia vita passata. Io non sono nato per fare il governatore. Io son fatto più per arare, zappare, potare le viti, che per fare leggi e difendere province e regni. San Pietro sta bene a Roma! Con questo voglio dire che ognuno deve fare il mestiere per cui è nato. Sono venuto senza un soldo e senza un soldo me ne vado; tutto al contrario di come son soliti andarsene i governatori di altre isole. Siccome vado via da qui senza un soldo, questa è la prova più evidente che ho governato come un angelo». Così si pronuncia Sancho Panza dopo il suo fallimento nel governare la finta isola di Barattaria: pochi giorni dopo l’inizio del suo incarico, ammette di aver cercato solo potere e quattrini, ma scopre che per governare servono dedizione e servizio. È onesto con se stesso: va via senza un soldo. Immaginate se un politico dovesse restituire i soldi dello stipendio a fronte della mancata realizzazione di ciò che ha promesso nel programma per cui è stato votato.
Il mio stipendio a scuola è giustificato dal fatto che i miei studenti crescono in cultura e libertà, altrimenti devo andare a fare altro. Nella scuola in cui insegno prendiamo i ragazzi al primo anno di superiori e li portiamo alla maturità, si chiama continuità didattica e permette di fare un progetto educativo paziente e attento in cui al centro c’è il singolo ragazzo e non un cervello senza storia e senza corpo.
Quella della continuità didattica è una scelta «politica»: consente di suscitare l’energia creativa dei ragazzi meglio del continuo cambiamento dei docenti. Quando vedo sbocciare i loro «poteri» faccio politica e non esercito un potere fine a se stesso, burocratico e tirannico. La buona politica genera «essere» negli e dagli altri, perché libera il potere dell’altro, non seduce e non controlla con il piacere o con la violenza. Mi auguro che chi la settimana prossima riceverà il compito di governare il nostro Paese abbia capacità e coraggio per fare ciò che ogni genitore responsabile farebbe per un figlio, e non governi, come Sancho Panza, per far quattrini su un’isola che non ha mai visto e se ne sta in un palazzo che è una tragica finzione ordita dai duchi, che si fanno beffe di un povero contadino e rappresentano il vero potere, che gode della propria autoaffermazione con oppressione, menzogna e disprezzo.
Nel romanzo di Cervantes lo scrittore Milan Kundera vede giustamente l’inizio della modernità: «Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo. L’unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative, che gli uomini si spartirono fra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moderni». Oggi siamo al capolinea di questi tempi di spartizione, infatti si è esaurito l’umanesimo che li aveva inaugurati sopravvalutando il potere autonomo dell’uomo (da creatura a creatore) e il conseguente stile «onnipotente» di dominio su cose e persone, con effetti evidenti in ogni ambito: dall’ecologia alla politica. Spero che chi ci governerà appartenga a un nuovo umanesimo in cui il potere non è dominio ma creatività, non controllo ma servizio, non monologo ma dialogo, non palazzo ma comunità, e che a differenza dell’isola che non c’è di Sancho governi sulla Penisola che c’è. Lunedì prossimo la rubrica sarà in pausa per dar spazio proprio agli esiti elettorali che guarderemo, silenziosi e speranzosi, dal nostro ultimo banco. Buon voto a tutti.
«Corriere della sera» del 19 settembre 2022

20 luglio 2022

La storia degli uomini che tentarono di uccidere Hitler. E perché l’Operazione Valchiria fallì

Il tentativo di uccidere Hitler avvenne il 20 luglio 1944 a Rastenburg. E dimostrò come il tiranno può essere sconfitto solo dalla politica
di Carlo Galli
"Chiedo al mondo di accogliere il nostro martirio come una penitenza del popolo tedesco". Così Carl Goerdeler, ex borgomastro di Lipsia, mentre veniva impiccato, il 2 febbraio 1945, dopo essere stato torturato per mesi dalla Gestapo. Era coinvolto ai livelli più alti (avrebbe dovuto essere il nuovo Cancelliere) nella Operazione Valchiria, la cospirazione prevalentemente militare che era arrivata a fare esplodere una bomba quasi ai piedi di Hitler, a Rastenburg, la remota località della Prussia orientale in cui il Führer aveva installato il proprio quartier generale, la "Tana del lupo".
L'attentato del 20 luglio 1944, eseguito materialmente dal colonnello Claus von Stauffenberg, fallì: il demonio protesse Hitler per l'ultima volta. Una serie incredibile di circostanze fece sì che la bomba provocasse pochissimi morti, e il lieve ferimento del dittatore. Una vendetta terribile colpì i congiurati, che non avevano organizzato con la necessaria precisione il piano Valchiria, cioè le mosse immediatamente seguenti la prevista morte di Hitler (occupazione di ministeri, radio, neutralizzazione delle SS e della Gestapo). Persa l'iniziativa a causa dell'insuccesso dell'attentato, alcuni furono fucilati la notte stessa nella caserma della Bendlerstrasse dove risiedeva il comando dell'Esercito di Riserva, a cui appartenevano i principali cospiratori; altri, in Germania e in Francia, furono catturati e costretti a parlare.
Ebbe così inizio una catena di suicidi, spontanei o coatti (fra cui anche quello di Rommel) e di deferimenti al "Tribunale del popolo", presieduto dal giudice Freisler, un mostro di fanatismo che condannò a morte generali e politici. Cinquemila furono gli inquisiti, almeno duecento gli uccisi - appesi a ganci da macello, e filmati durante l'agonia perché Hitler potesse gustare la proiezione nei dopocena - ; i parenti dei congiurati vennero internati nei campi, poiché condividevano il sangue dei "traditori".
Ma chi erano i coraggiosi che osarono attentare al tiranno? Perché agirono nell'estate del 1944, e con quali fini? Era ormai chiaro che la Germania stava perdendo la guerra: impegnata su tre fronti terrestri, virtualmente priva di Marina militare, progressivamente tagliata fuori dalle fonti di approvvigionamento energetico e di materie prime, e, nonostante i successi organizzativi del ministro Speer, in procinto di vedere i bombardamenti radere al suolo le proprie industrie e le proprie città.
L'obiettivo dei congiurati era di sostituire i vertici dello Stato, disarmare le SS, neutralizzare il Partito, e firmare un armistizio a Ovest, continuando a combattere a Est contro le "orde" bolsceviche e così salvare l'Europa dal comunismo. Un progetto di grande conservatorismo e di disarmante ingenuità. Era infatti evidente che mai gli Alleati avrebbero siglato una pace separata con la Germania, e che mai sarebbero venuti meno alla linea della "resa incondizionata". I congiurati non avevano capito quello che invece era chiaro a Hitler: che la guerra era un'avventura senza ritorno.
La loro origine sociale (prevalentemente, la nobiltà militare), il loro passato (per molti - ma non per tutti - di iniziale cauta simpatia per il nazismo, in chiave nazionalistica, a cui era seguito un allontanamento dal regime per ragioni morali), la sincera fede religiosa di parecchi di loro (protestanti e cattolici), la riluttanza a infrangere il giuramento di fedeltà a Hitler (che come tutti i militari avevano prestato), la loro struttura mentale poco elastica, anche se retta; tutto ciò rendeva difficilissima la gestione di una congiura che anche agli occhi dei nemici della Germania parve strumentale - volta a salvare il salvabile del Reich, alle cui élite i congiurati appartenevano, condividendo quindi, oggettivamente, le compromissioni delle classi dirigenti tedesche.
L'errore nel quale, nonostante il loro disperato coraggio e il loro odio verso il regime, erano caduti, è stato credere che il tirannicidio fosse la soluzione di una gravissima crisi politica e morale. Ovvero che il tiranno fosse solitario, e non il vertice di un sistema politico e sociale, e il frutto di una storia; che fermare le sue azioni equivalesse a fermare la catastrofe. La quale, al contrario, anche se l'attentato non fosse fallito, avrebbe certamente avuto luogo in altre forme, finché non fosse stata del tutto stroncata, dall'esterno, la spinta propulsiva del regime che sorreggeva il tiranno. Il totalitarismo genocida non coincideva con una persona, nemmeno con quella di Hitler: era immerso in dinamiche politiche, interne e internazionali, che avevano lontane origini e che non potevano non consumarsi fino in fondo. Neppure sacrificando Hitler si poteva evitare la sconfitta e riscattare l'onore della Germania.
Il tirannicidio è consentito da san Tommaso, dietro severe condizioni e riflessioni. Ma la sua eventuale liceità morale non è sufficiente a farne uno strumento di risoluzione delle questioni politiche. Chi, in circostanze molto diverse da quelle di quasi ottant'anni fa, è oggi sfiorato da simili fantasie esprime una comprensibile ripugnanza per guerre, autoritarismi, ingiustizie, ma non va al di là di una posizione morale. Morale, e altissima, fu anche la testimonianza dei congiurati del 20 luglio: chiedere perdono, pagare con la vita, ha lasciato un seme di libertà e di responsabilità, nella storia e nelle coscienze dei tedeschi e degli europei. Ma per sconfiggere i tiranni non basta la scorciatoia, sempre tardiva, del tirannicidio - e, d'altra parte, oggi non ci si può certo augurare che una guerra mondiale cancelli il Male nelle sue molteplici incarnazioni. Come un processo politico, e gli errori di molti, li ha generati, così i tiranni vanno combattuti con la politica, attivando tempestivamente e concretamente, con determinazione e lungimiranza, dinamiche necessariamente complesse che diano, sempre, una chance reale alla democrazia e alla giustizia.
«la Repubblica» del 19 luglio 2022

05 giugno 2022

Gli abiti decorosi da avere a scuola

A scuola si va per confrontarsi con le idee, con la storia, con l’etica, con la memoria e l’abito deve adeguarsi alla dignità che suggerisce il luogo. La scuola è un tempio laico, dove si crea il futuro del Paese e quindi va rispettata e onorata
di Dacia Maraini
Siamo veramente liberi di vestirci come vogliamo? Credo che in questa asserzione di libertà ci sia un inganno. Noi in realtà non ci vestiamo come ci pare, ma come pare alla moda. Provate a chiederlo a una costumista del cinema. Lei saprà riconoscere un decennio dai vestiti che si usavano all’epoca: gli anni 60, gli anni 80, gli anni 2000, eccetera. Nessuno sfugge alla moda. Come spiegare altrimenti i blue jeans stracciati e bucati che non si sono mai visti primae che ora portano con noncuranza tantissime ragazze e ragazzi,? Come spiegare i tatuaggi sulle braccia, sul collo, sulle gambe in bella vista? Come spiegare i capelli rasati sulle tempie e sbuffanti in alto come un bauletto per i maschi e le pettinature alla madonna, lisci sulle orecchie che finiscono coi riccioli sul collo per le femmine? Come spiegare le scarpe firmate, il colore viola che viene gettato sul mercato un anno e l’anno dopo il colore verde, eccetera?
I vestiti parlano, rappresentano un linguaggio molto evidente e quasi mai riguardano la libertà personale. Di solito suggeriscono linguaggi che vogliono rappresentare la seduzione, ma in maniera semplificata e stereotipata. È il mercato che diffonde l’uso di un abito e noi ci adeguiamo bene o male, perché il conformismo fa parte del nostro comportamento sociale. Nessuno vuole rimanere indietro rispetto alle novità in fatto di abiti e colori. Detto questo anche la moda in qualche modo suggerisce un linguaggio diverso secondo i luoghi che si vogliono frequentare. Non si va in chiesa vestiti come per andare in palestra, così come non si va a un matrimonio con abiti da casa, e non si va in viaggio vestiti come per ballare in un locale notturno, e non ci si presenta a un esame con gli infradito ai piedi.
Che la scuola abbia perso la sua sacralità purtroppo lo dimostra proprio questa idea che la si possa frequentare senza nessun riguardo per quello che rappresenta. E non parlo di compostezza, contegno, pudore, come dice il vocabolario descrivendo la parola «decenza» ma di rispetto per una casa del pensiero dove ogni altro linguaggio dovrebbe tacere per lasciare spazio alla difficile arte dell’apprendimento.
Credere che sia libertà l’adeguarsi a una moda sciatta, cinica che mette sul mercato il corpo femminile come oggetto di predazione è un equivoco purtroppo poco compreso.
La moda non sfugge a una antica idea di divisione dei ruoli sessuali. A volte, quella piu intelligente e personale, gioca col teatro. Lo vediamo nelle sfilate che diventano sempre piu stravaganti e improbabili come abiti da indossare, suggerendo voglie di gioco e di travestimento.
Rimane il fatto che ogni luogo pretende un suo linguaggio. E rispettarlo non significa mancanza di libertà, ma al contrario vuol dire riconoscere la specificità dell’occasione. Tenersi alle regole, anche quelle non scritte, non è segno di conformismo, ma anzi, di grande lealtà verso le istituzioni e di quello che rappresentano. Un paese senza istituzioni va alla deriva, in preda al piu prepotente. Le istituzioni sono alla base della democrazia e non tenerne conto è pericoloso.
La scuola è una istituzione sacra. A scuola si va per confrontarsi con le idee, con la storia, con l’etica, con la memoria e l’abito deve adeguarsi alla dignità che suggerisce il luogo. La scuola è un tempio laico, dove si crea il futuro del paese e quindi va rispettata e onorata.
Se però è vero che la preside (preferisco usare questo termine al posto di dirigente, perché credo che la scuola debba formare e non produrre) ha detto le parole riportate dai suoi allievi, non posso che mettermi dalla parte degli studenti. Non si tratta più di «decoro» o «pudore» ma di disprezzo per un corpo fuori dai canoni di bellezza che suggerisce il mercato.
Non si tratta di una questione di «cellulite», di «sederi», di «tette», come si è scritto, ma di pensiero. Il linguaggio di un luogo dedito alla riflessione e alla conoscenza vuole una discrezione che riguarda la serietà dell’impresa di apprendimento e non altro. Anche il pensiero dei dirigenti ha un linguaggio e quello della preside, sempre che sia vero ciò che si riferisce, lo trovo fuori luogo e sprezzante. Non è denigrando la ragazza grassa o la esibizionista con la cellulite che si chiarisce una idea di decoro. La scuola è il luogo della piu grande libertà, ma di una libertà che non riguarda la moda e il mercato, bensì la necessità di imparare a pensare con la propria testa, difendendo la dignità dell’immaginazione, che di solito è ben lontana da quella che suggerisce una moda subdola e vorace.
«Corriere della sera» del 5 giugno 2022

21 gennaio 2022

Nei film di animazione ci sono troppi balletti?

La tendenza a far esibire sempre di più i personaggi in coreografie sembra studiata per i social media e gli adattamenti teatrali: come dimostra Encanto, l'ultimo film Disney. Tutto questo però va a scapito della qualità
di Jason Kehe
Encanto, l'ultimo musical animato di Disney, sarebbe stato un film perfetto, se solo non avesse subito due distinte forme di pressione. La prima, è la pressione di dover avere il finale perfetto. Non un lieto fine, intendiamoci: il lieto fine è accettabile. Il finale perfetto, che accettabile non lo è mai, è quello in cui ogni tipo di delusione, ingiustizia o rimpianto è superato come (o letteralmente) per magia all'ultimo secondo disponibile, privando il pubblico dell'opportunità di accettare con serenità il meraviglioso struggimento a cui si erano preparati per tutto il film. Purtroppo, la pressione del finale perfetto è così totalizzante nell'animazione americana che lamentarsene ora, nel ventunesimo secolo, sembra un esercizio inutile oltre che assurdo. Personalmente, penso sia molto più sofisticato criticare la seconda forma di pressione, molto meno dibattuta, con cui si trova a dover fare i conti un povero film come Encanto, la storia di una famiglia colombiana che perde i suoi poteri magici: la pressione di dover far ballare i suoi personaggi.
Anche meno Esattamente, ballare. Muovere il corpo a tempo di musica, spesso, nel caso dei protagonisti del film, per nessuna altra ragione se non che sono fisicamente in grado di farlo. In La pressione sale, il brano più accattivante di Encanto, una delle sorelle Madrigal, Luisa, canta della pressione - un tema ricorrente - di essere forte per tutta la famiglia. Luisa si riferisce sia alla forza emotiva che fisica, dal momento che il suo superpotere è la forza sovrumana (ma anche perché Lin-Manuel Miranda, che ha scritto la versione originale della canzone, non è un autore particolarmente sottile). "E sale la pressione e non conosce stop, woah - canta Luisa -. Senti questo tic, tic, tic? Presto esploderò, woah". Per buona parte dalla canzone, questa donna adulta decisamente ben piazzata si esibisce in movenze hip hop come una ragazzina smaniosa davanti allo specchio della sua cameretta. "Sembra un balletto di TikTok", mi ha detto un'amica durante la visione. Più tardi quella stessa sera, mi ha mandato un TikTok di un adolescente in carne e ossa che eseguiva gli stessi identici passi.
Una strategia calcolata Ovviamente è probabilmente l'esatto scenario che Disney sperava si verificasse nelle fasi di scrittura della scena: dare alla grande signora triste dei passi accattivanti, mettere sullo sfondo un tormentone con un linguaggio da lettino di uno psicoanalista, e mettersi comodi ad aspettare la pubblicità gratuita. Una mossa di pessimo gusto in qualsiasi circostanza, che diventa però quasi disgustosa nel contesto dell'intrattenimento animato. Tra principali forme d'arte, la danza è l'unica che richiede forza fisica. Tutto il suo fascino, infatti, si basa sulle contorsioni del corpo umano, il sudore, il rischio e il trionfo: Cos'è quella mossa? Come fa a piegarsi così? Perderà il ritmo? I personaggi dei musical dal vivo ballano di continuo, ed è giusto così: fa parte dei manierismi della narrazione. Anche i cartoni animati generati al computer sono liberi di ballare, ma quando lo fanno, emerge la consapevolezza esasperata dei loro movimenti affettati e della motivazione, diegetica o meno, che li spinge a ballare, tanto più quando quei movimenti sembrano essere al servizio di una strategia di social media. I casqué e le giravolte cominciano a sembrare pixel iperprogrammati e inquietanti che eseguono plié e piroette con una precisione perfetta e perturbante. Nella sua forma peggiore, è un insulto alla fisicità della danza. Quindi è meno divertente da guardare. Anzi, gran parte delle volte è semplicemente imbarazzante. Quando Luisa dal niente si mette a ballare, a metà di un film in cui altrimenti non dimostra alcun interesse attivo nelle arti performative, oppure quando un'altra delle sorelle Madrigal canta e si dimena sulle note dell'altro successo formato TikTok di Encanto, Non si nomina Bruno, si percepisce non solo la speranza della Disney che gli spettatori facciano loro queste movenze, ma anche la rinuncia da parte della società, in atto ormai da molti anni, all'animazione come genere a sé. A un film come Encanto non è più concesso di esistere come prodotto isolato, ma deve invece strizzare l'occhio a ogni tipo di possibile crossover, dagli spettacoli sul ghiaccio e le giostre nei parchi a tema fino, in modo ancora più spudorato, ai musical di Broadway.
Lo spartiacque E la 'colpa' è di Frozen. Prima della sua uscita nelle sale nel 2013, la differenza tra un musical di Broadway e un musical Disney era quantomeno oggetto di dibattito. Certo, classici come Il Re Leone, La Bella e la Bestia e La Sirenetta hanno tutti finito con l'essere adattati per Broadway, più o meno in questo ordine decrescente di qualità, ma nessuno di questi film era stato realizzato nella speranza di essere portato a teatro. Innanzitutto, i balletti erano pochissimi, oltre che casuali e goffi. Le parti cantate, poi, erano più contenute e meno appariscenti. Tutto questo è cambiato il giorno in cui Idina Menzel, la cantante che ha prestato la sua impressionante voce ai musical Rent e Wicked, è stata scelta per Frozen (nella versione italiana la parte è stata affidata a Serena Autieri), facendo entrare Disney nell'era della spettacolarizzazione delle canzoni. Da allora, film come Oceania, Coco, Frozen II, e ora Encanto sono tutti sembrati meno pellicole di animazione, quanto piuttosto produzioni teatrali, pronte per essere adattate da un momento all'altro per il palcoscenico. Nel 2018, Frozen ha debuttato a Broadway. Probabilmente lo spettacolo attira spettatori nuovi e più giovani verso un settore in difficoltà. Ma è una ragione sufficiente per giustificare l'infinito circolo vizioso di progetti che non sono pensati per nessuna piattaforma specifica e che uniformano e rendono più superficiale il nostro intrattenimento, frustrando ogni speranza di espressione artistica? Probabilmente no. Se ogni cosa viene fatta per essere trasformata in altro, allora niente può eccellere nell'essere se stesso: la storia dei nostri tempi. Encanto aveva un potenziale enorme. Da qualche parte al suo interno c'è un film che è un piccolo miracolo di sensibilità sul tema del retaggio culturale e del rinnovamento, che viene tristemente fagocitato dalle pressioni aziendali per trasformarlo in qualcosa più, e di meno. Per Disney, oggi l'animazione è un mezzo e non un fine, che comincia con tutti quei traumatici balletti fuori tempo e scollati dalla realtà, propinati a un pubblico confuso e impressionabile. Niente è più al sicuro, nemmeno i finali. Pensateci un attimo: se i personaggi animati non fossero costretti ad agitare il loro corpo digitale al ritmo delle canzoni, ci sarebbe meno pressione per chiudere con il finale perfetto. Se avessero sentimenti reali, i personaggi non avrebbero nulla per cui ballare.
«Wired» del 20 gennaio 2022

10 gennaio 2022

Una scuola senza talento

di Alessandro D’Avenia
La scuola purtroppo è al centro del dibattito solo per l’emergenza virale, mai per quella vitale che la ferisce da decenni. Voglio allora fermarmi sulle righe ricevute di recente da un 13enne: «Ho visto un video in cui parla del talento. Mi ha fatto riflettere, avevo un’altra idea del talento, pensavo fosse legato al successo e alla fama. La sua spiegazione mi ha dato serenità». Le narrazioni offerte ai ragazzi determinano la loro esperienza della vita. Questo ragazzo è angosciato dalla parola talento: parola vitale divenuta mortifera. Come è accaduto? Il talento (antica unità di peso molto grande: 34 kg d’argento, cioè un’intera vita di lavoro di un operaio) è proverbiale grazie alla parabola del vangelo di Matteo (25), in cui Cristo descrive il regno dei cieli, cioè il mondo come Dio lo offre agli uomini. La storia narra di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Riceviamo la vita in dote e siamo realmente liberi perché a noi è lasciata l’iniziativa «creativa»: per cosa? Il testo dice che i talenti non sono «le capacità», ma ciò che viene dato a ciascuno «secondo la sua capacità». Se confondiamo i talenti con «le capacità», la vita diventa un’ingiusta e spossante competizione, tipica della nostra società della performance che infatti genera soggetti stanchi, se non re-/de-pressi. Nella parabola si narra ben altro: che cosa? Il talento è la vita che ciascuno può ricevere in base «alla» capacità, cioè quanto può contenere un recipiente. I bicchieri hanno capacità diverse, ma non sono in competizione: ciascuno è pieno se riceve il liquido di cui è capace. A differenza dei bicchieri però, la «capacità» umana non è «cristallizzata»: si può espandere. In italiano infatti è tradotto con «capacità» la parola greca dynamis (energia), da cui dinamismo o dinamite. Si potrebbe tradurre: «A ciascuno diede talenti secondo la sua energia». Riceviamo tanta vita quanta ne possiamo e vogliamo ricevere di volta in volta: la vita ci viene incontro nella misura in cui le andiamo incontro. Questa capacità espansiva si chiama desiderio, «a ciascuno la vita è data secondo il suo desiderio»: talentuoso non significa quindi «capace» ma «vivace». Agostino lo spiega così: «Non potendo ora vedere il paradiso, vostro impegno sia desiderarlo. La vita è tutta desiderio. Ma se una cosa è oggetto di desiderio, ancora non la si vede, e tuttavia tu, attraverso il desiderio, ti dilati. Se devi riempire un sacco e sai che ciò che ti sarà dato è molto grande, ti preoccupi di allargare il sacco più che puoi. Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e lo rende più capace. Viviamo dunque di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. La vita è esercitarsi nel desiderio». Esercitarsi nel desiderio, cioè ampliare la capacità di ricevere vita, è la definizione migliore di felicità. Al ritorno dal viaggio infatti l’uomo chiede «conto dei talenti», cioè «racconto della vita»: come ti è andata? Due su tre hanno raddoppiato, la vita è cresciuta in e attorno a loro, è diventata eterna, cioè viva, e infatti la gioia provata è confermata e moltiplicata: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla mia gioia». Colui che invece ha sotterrato il talento ha sotterrato la vita e si giustifica così: «Per paura lo andai a nascondere sotterra». Ha rinunciato a «vivere la vita» e si è «lasciato vivere»: seppellendo il talento ha seppellito se stesso. Se un solo talento è una quantità tale da esser sinonimo del lavoro di una vita intera, a quell’uomo è stato chiesto ciò che era alla sua portata per essere felice. Ma la paura e la pigrizia sono state la sua tomba in vita. Nell’italiano delle origini talento significava non a caso desiderio: vivere in un talento è per Dante, nella famosa poesia per i suoi amici, aver gli stessi desideri. Dal 1700 in poi la parola si va invece identificando con «capacità», da vita in-determinata (desiderio) a pre-determinata (destino). Un 13enne, immerso nella cultura della prestazione e dell’autoaffermazione, è giustamente angosciato dalla legge del più forte o più fortunato. Proteggere la salute dei ragazzi oggi è farli esercitare non nel «potere» (domina il mondo) ma nel desiderio, nel «poter essere» (amplia il mondo). L’educazione serve a trovare il desiderio che anima ciascuno, per essere «vivo». Aiutarli a scoprire come ricevere vita (i talenti) è il segreto della gioia: domandare «che talenti hai?» non è chiedere «che capacità hai?» (da cui il pilatesco ritornello: «ha le capacità ma non si applica»), ma «quanta vita puoi/vuoi creare?». E ciò dipende da una domanda più radicale: «Qual è il tuo desiderio? Che cosa puoi essere e fare solo tu?». Un’educazione che con-forta (dà forza a) questa «energia» (dynamis), dà vita alla vita, ma per far questo serve un percorso serio che negli anni aiuti i ragazzi a distinguere «i desideri» indotti da condizionamenti esterni, mode e ferite della vita, che generano dipendenza, e «il desiderio» autentico, che invece libera e moltiplica la vita. Noi educatori conosciamo il nostro desiderio? E il loro? Li aiutiamo a scoprirlo ed esercitarlo, perché noi per primi lo stiamo facendo? O li addestriamo alla logica sfinente della prestazione e quindi del potere?
«Corriere della sera» del 10 gennaio 2022