Nel dibattito sulla scuola ritorna spesso il confronto fra scuole statali e del privato sociale in merito a chi educa meglio
di Pierpaolo Donati
(Università di Bologna)
Certamente è difficile generalizzare. Molto dipende dalle situazioni locali.Però una recente ricerca ha cercato di valutare la situazione a Bologna e il risultato è stato quello di constatare che le scuole del privato sociale (non quello mercantile) educano i ragazzi meglio delle scuole statali, se per educazione non si intende solo l'istruzione ma il fatto di dare un ambiente sano e un progetto di vita sensata (i risultati sono pubblicati in «Capitale sociale delle famiglie e processi di socializzazione: un confronto fra scuole statali e di privato sociale», a cura di Pierpaolo Donati ed Ivo Colozzi, Franco Angeli, Milano, 2006).Qual è la ragione?
L'originalità dell'indagine consiste nell'aver esplorato i processi educativi alla luce del capitale sociale.Le scuole che generano più capitale sociale assieme alle famiglie sono anche quelle che riescono a fornire agli alunni un ambiente di vita in cui possono crescere meglio.
La ricerca è partita da una domanda: chi, fra scuole statali e di privato sociale, educa i ragazzi valorizzando di più, e meglio, il capitale sociale come risorsa per una buona socializzazione educativa?
I risultati dell'indagine, condotta su due campioni di genitori bolognesi con figli 6-18 anni iscritti in scuole statali e di privato sociale, rivelano come queste ultime siano capaci di valorizzare il capitale sociale nei processi di socializzazione educativa più delle scuole statali.Nella percezione dei genitori questo avviene perché le scuole di privato sociale hanno una concezione dell'educazione più «globale»: danno più attenzione alle relazioni umane, aiutano di più gli studenti svantaggiati, coinvolgono maggiormente le famiglie nella vita della scuola, sono più capaci di creare una collaborazione fra genitori con orientamenti culturali differenti e li aiutano di più nel loro compito educativo.Per questo le famiglie con un capitale sociale familiare più alto, dove più diffuse sono le relazioni di aiuto fra i membri, tendono a preferire le scuole di privato sociale, che si preoccupano di sviluppare, oltre alla dimensione civica ed a quella professionale, la dimensione valoriale e quella relazionale, cui le famiglie annettono pari importanza e improntano il proprio stile di vita.
Nonostante le difficoltà (problemi di costo, di distanza dal luogo di residenza, le scelte degli amici/amiche dei figli, ecc.) la propensione delle famiglie a scegliere le scuole di privato sociale resta alta e potrebbe ulteriormente rafforzarsi se si riducessero le barriere all'accesso.
Le scuole di privato sociale producono inoltre un maggior capitale sociale comunitario.Hanno un'utenza più omogenea di quelle statali e il loro successo si misura nel rafforzare legami che in molti casi esistevano già in partenza. I risultati mostrano che reti sociali più omogenee e connesse non equivalgono a reti chiuse nei confronti di chi è diverso o non appartiene alla rete.Al contrario spronano a farsi carico direttamente dei problemi, contando meno sull'intervento dello Stato, dando più fiducia alla capacità dei cittadini associati di individuare le soluzioni ai problemi e di metterle in atto.
Non mettono in atto forme di impegno e mobilitazione che hanno come obiettivo primario la sollecitazione alle istituzioni perché si facciano carico della soluzione del problema.
Il privato sociale costituisce, quindi, un fattore importante di valorizzazione del capitale sociale.Un sistema politico che abbia a cuore la coesione sociale del paese, che non può essere perseguita se i beni relazionali diventano beni scarsi, deve perciò impegnarsi a regolarlo in modo «promozionale».
Per il sistema formativo questo richiede vengano eliminate o, almeno, ridotte le barriere all'accesso, ancora elevate, che rischiano di produrre una discriminazione nei confronti delle famiglie meno agiate economicamente.
Richiede, poi, vengano garantite condizioni di autonomia: le organizzazioni formative siano libere di prestare attenzione alle condizioni reali del contesto umano e sociale in cui sono inserite e di adattare ad esse il proprio progetto educativo, le proprie prestazioni e le modalità di organizzazione.Questa indagine smentisce coloro che affermano che la famiglia e le relazioni primarie di vita quotidiana non siano capitale sociale: lo sono, anzi sono proprio queste relazioni che creano buoni cittadini.
L'originalità dell'indagine consiste nell'aver esplorato i processi educativi alla luce del capitale sociale.Le scuole che generano più capitale sociale assieme alle famiglie sono anche quelle che riescono a fornire agli alunni un ambiente di vita in cui possono crescere meglio.
La ricerca è partita da una domanda: chi, fra scuole statali e di privato sociale, educa i ragazzi valorizzando di più, e meglio, il capitale sociale come risorsa per una buona socializzazione educativa?
I risultati dell'indagine, condotta su due campioni di genitori bolognesi con figli 6-18 anni iscritti in scuole statali e di privato sociale, rivelano come queste ultime siano capaci di valorizzare il capitale sociale nei processi di socializzazione educativa più delle scuole statali.Nella percezione dei genitori questo avviene perché le scuole di privato sociale hanno una concezione dell'educazione più «globale»: danno più attenzione alle relazioni umane, aiutano di più gli studenti svantaggiati, coinvolgono maggiormente le famiglie nella vita della scuola, sono più capaci di creare una collaborazione fra genitori con orientamenti culturali differenti e li aiutano di più nel loro compito educativo.Per questo le famiglie con un capitale sociale familiare più alto, dove più diffuse sono le relazioni di aiuto fra i membri, tendono a preferire le scuole di privato sociale, che si preoccupano di sviluppare, oltre alla dimensione civica ed a quella professionale, la dimensione valoriale e quella relazionale, cui le famiglie annettono pari importanza e improntano il proprio stile di vita.
Nonostante le difficoltà (problemi di costo, di distanza dal luogo di residenza, le scelte degli amici/amiche dei figli, ecc.) la propensione delle famiglie a scegliere le scuole di privato sociale resta alta e potrebbe ulteriormente rafforzarsi se si riducessero le barriere all'accesso.
Le scuole di privato sociale producono inoltre un maggior capitale sociale comunitario.Hanno un'utenza più omogenea di quelle statali e il loro successo si misura nel rafforzare legami che in molti casi esistevano già in partenza. I risultati mostrano che reti sociali più omogenee e connesse non equivalgono a reti chiuse nei confronti di chi è diverso o non appartiene alla rete.Al contrario spronano a farsi carico direttamente dei problemi, contando meno sull'intervento dello Stato, dando più fiducia alla capacità dei cittadini associati di individuare le soluzioni ai problemi e di metterle in atto.
Non mettono in atto forme di impegno e mobilitazione che hanno come obiettivo primario la sollecitazione alle istituzioni perché si facciano carico della soluzione del problema.
Il privato sociale costituisce, quindi, un fattore importante di valorizzazione del capitale sociale.Un sistema politico che abbia a cuore la coesione sociale del paese, che non può essere perseguita se i beni relazionali diventano beni scarsi, deve perciò impegnarsi a regolarlo in modo «promozionale».
Per il sistema formativo questo richiede vengano eliminate o, almeno, ridotte le barriere all'accesso, ancora elevate, che rischiano di produrre una discriminazione nei confronti delle famiglie meno agiate economicamente.
Richiede, poi, vengano garantite condizioni di autonomia: le organizzazioni formative siano libere di prestare attenzione alle condizioni reali del contesto umano e sociale in cui sono inserite e di adattare ad esse il proprio progetto educativo, le proprie prestazioni e le modalità di organizzazione.Questa indagine smentisce coloro che affermano che la famiglia e le relazioni primarie di vita quotidiana non siano capitale sociale: lo sono, anzi sono proprio queste relazioni che creano buoni cittadini.
«Avvenire» del 15 luglio 2007
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