16 dicembre 2022

C'è anche un profitto buono e non si chiama mai usura

di Luigino Bruni
C’era un tempo in Europa quando i Papi emettevano Bolle per risolvere controversie su banche e interessi. Quando "l’economia della salvezza" e "la salvezza dell’economia" erano entrambe al centro dell’impegno dei cristiani, dell’intelligenza dei teologi, dell’osservazione della pubblica opinione. Quando i dibattiti sull’eucarestia e quelli sulla legittimità dell’usura avevano la stessa dignità teologica e umana, perché la Chiesa e la gente sapevano bene che si viveva e si moriva anche per la mancanza di credito o per troppi prestiti cattivi.
Dibattiti talmente accesi che fu necessaria una Bolla papale per chiudere (senza riuscirci del tutto) la lunga controversia attorno ai Monti di Pietà. La querelle riguardava in particolare il prestito a interesse che praticavano quei banchi, che gli avversari consideravano usuraio. Leone X, pur riconoscendo come possibili le ragioni degli oppositori, definì legittimo per quelle banche richiedere il pagamento di un interesse sul prestito, «purché destinato esclusivamente a le spese degli occupati e di altre cose attinenti al mantenimento dell’organizzazione, purché non ne venga ricavato alcun profitto» (Inter Multiplices, 1515). La bolla affermava dunque che i Monti non incorrevano nel peccato di usura («pecunias licite mutuant»), che non erano istituzioni usuraie per il solo fatto di chiedere il pagamento di un interesse (in genere attorno al 5% annuo). La stessa Bolla ribadiva la definizione dell’usura: «Perché questo è il vero significato dell’usura: quando una cosa produce guadagno per il solo uso della cosa stessa ("ex usu rei"), senza alcun lavoro, alcuna spesa o alcun rischio». Alcun lavoro ... alcun rischio.
Il prestito a interesse dei Monti di Pietà venne considerato non usuraio a condizione dunque che l’interesse non fosse espressione di uno scopo di lucro, ma il legittimo rimborso delle spese di funzionamento della banca. Tanto che, nell’ultima sessione della Bolla, Leone X non manca di specificare che l’ideale resta il non-pagamento dell’interesse (almeno parziale) da parte dei poveri, quando fondi pubblici o filantropici potessero coprire le spese di gestione in modo che non farle gravare «interamente sui poveri». Il centro della polemica era dunque lo scopo di quell’interesse, lo "spirito" di quella piccola somma aggiunta al capitale. Lo spirito non doveva essere il lucro, ma la copertura dei costi.
Ma era proprio questo "spirito" a essere messo in questione dagli oppositori dei minori francescani. Tra questi il monaco Nicolò Bariani, piacentino, che nel 1494 pubblicò un libretto che fece molto rumore: De Montis Impietatis. Bariani era agostiniano, quindi formato alla visione biblica e patristica su denaro e interesse. Per lui ogni somma di denaro restituita che eccedeva il capitale prestato era usura, quindi illecita, incluse quelle dei Monti di Pietà. I francescani invece distinguevano. Come? E in base a quale "teoria" potevano distinguere un fiorino usuraio da uno legittimo?
Ciò che è certo è che quel dibattito tra teologi su economia e usura fu molto appassionante, controverso, duro, aspro, fin dal XIII secolo. Ma soprattutto fu geniale, e ci lascia ancora sbigottiti a distanza di molti secoli per l’intelligenza e la ricchezza. I francescani, prima di essere teologi, erano attenti osservatori della realtà, soprattutto quella delle nuove città italiane ed europee; erano meno interessati alle dispute astratte e deduttive (incluse quelle aristoteliche), e molto più alla comprensione dei comportamenti effettivi della gente. Per questo osservavano le prassi dei mercanti, conoscevano i cambiamenti economici e civili in un tempo molto dinamico. E facevano un’operazione essenziale in ogni tentativo di comprensione della realtà complessa: il discernimento. Distinguevano, separavano, facevano ordine tra fenomeni che potevano apparire simili in certe cose ma erano molto diversi in altre, e quali cose-dimensioni erano davvero quelle decisive in quel dato tempo e in quel dato luogo. In quei laboratori che erano le città mercantili dei secoli XIII-XV, capirono, ad esempio, che il mercante che nel contratto include nel prezzo del bene un valore aggiunto per compensarlo dal rischio di imprese molto incerte via mare o terra, o il cambiavalute che a Genova o a Venezia doveva tener conto delle oscillazioni delle monete e delle inflazioni, facevano mestieri diversi dal prestatore professionista di denaro a usura che se ne stava tranquillo e al caldo nel suo banco (come affermava Alessandro d’Alessandria, Tractatus de usuris, inizio XIV sec.). Tutti e tre pagavano o chiedevano interessi sul denaro, è vero, e questo elemento comune era sufficiente a molti monaci predicatori per condannarli tutti come usurai; ma, dicevano i francescani, le tre situazioni erano molto diverse nella sostanza benché simili nella forma. E questo fa emergere qui il gran tema della differenza tra profitto e rendita.
Prima di tutto, però, dobbiamo prendere sul serio una strana amicizia medioevale, quella tra i francescani e i mercanti. Francesco inizia la sua storia in Assisi distinguendosi e rifiutando l’economia di suo padre Bernardone, un mercante; i francescani, poco dopo, si ritrovano alleati dei mercanti nelle città italiane e europee del Duecento e Trecento. Altro paradosso generativo. Intanto c’è, anche qui, un dato concreto: diversamente da altri ordini religiosi, i francescani avevano sviluppato più di altre famiglie religiose, fin dai tempi di Francesco, un ordine secolare: il Terz’Ordine. Avevano dentro la loro comunità carismatica dei laici, e tra questi molti mercanti. Li conoscevano, erano loro fratelli. Prima di giudicarli erano i loro amici, e ne conoscevano il cuore. Non è da escludere che le prime parole buone sul mercato e sul profitto siano nate durante qualche pasto di fraternità, quando qualche mercante-fratello si era confidato con loro parlando del suo mestiere difficile e anche rischioso. E avendo visto l’anima di un mercante quei teologi hanno visto un’anima diversa del mercato. Hanno prima amato e stimato i mercanti poi i mercati. E così li hanno capiti, ieri e oggi, perché non c’è vera conoscenza senza amore-agape. In tutto questo c’è un forte messaggio di teologia cristiana: la storia non è fiction, la Provvidenza parla anche dentro gli avvenimenti concreti, lo Spirito spira pure dentro un contratto di un commerciante e nella bottega di un artigiano.
E così, guardando e amando il mondo, essi si accorsero che quei mercanti non erano usurai, anche quando dovevano chiedere o pagare interessi. Ecco il tema dello spirito di quel lucro, dello spirito di quel capitalismo. E da lì si convinsero che era la stessa idea di condanna formale e astratta dell’interesse sul denaro che andava ripensata, perché non tutti gli interessi erano uguali. C’era un tipo di interesse che era soltanto giusta compensazione per alcuni aspetti inerenti alla stessa attività economica e commerciale. Capirono che se i mercanti non includevano la remunerazione del rischio dentro i loro contratti, quell’attività non si poteva sviluppare, e sarebbe stato un grave danno per le città - i francescani avevano ben chiara la funzione di Bene comune dei mercanti onesti (i "boni" mercanti). Pagare un premio assicurativo per le imprese marittime (foedus nauticus) o a chi prestava i capitali per una lunga missione commerciale in Oriente, era ben diverso dal prendere denaro a usura da un banco. Ciò che era usuraio era lo spirito, non la somma materiale di denaro in sé pagata per interesse, perché qualche volta quel denaro era semplicemente una componente collaterale, necessaria e buona di alcune operazioni imprenditoriali.
Se, poi, quel mercante si trovava nelle condizioni di poter prestare del denaro ad altri mercanti - mercanti e banchieri all’inizio erano attività molto intrecciate -, ecco fare la sua comparsa un’altra buona ragione per chiedere un pagamento di un interesse: il lucro cessante. Se, cioè, il mercante Lapo presta 1.000 fiorini al collega Duccio e così rinuncia lui stesso a usare quei denari, è lecito che Duccio ricompensi con un interesse Lapo per il guadagno che il suo collega non ha potuto ottenere a causa del suo prestito - l’equivalente del moderno "costo opportunità". Questo interesse è dunque buono, a condizione però che chi prestava il denaro fosse un mercante e che quindi l’uso alternativo ipotetico fosse un uso produttivo, non sterile prestito. Ciò che sembrava essere usura, nel caso di buoni mercanti era invece solo il compenso per l’incertezza, per l’inflazione, la variabilità dei mercati. Tanto che in molte città i mercanti erano annoverati tra i pauperes, sebbene non indigenti, perché dipendenti radicalmente dall’incertezza. Eccoci allora alla distinzione decisiva: quella tra profitto e rendita, oggi totalmente dimenticata. Per quei francescani teologi ed economisti se l’interesse ha la natura di profitto del buon mercante è lecito; se invece quella stessa somma di denaro ha la natura di rendita, è usura. Il profitto è la remunerazione per l’attività lecita e rischiosa del mercante, un guadagno che giunge come premio del suo lavoro, rischio, della perizia, dell’innovazione, del suo prezioso mestiere. La rendita invece è un guadagno che giunge per il solo fatto di esercitare una posizione di potere sul denaro, senza lavoro e senza correre alcun vero rischio d’impresa. Ecco perché fra Angelo da Chivasso, discutendo delle penalità pecuniarie che potevano essere aggiunte a un mutuo per tutelarsi dalla ritardata restituzione, afferma che si tratta di una pretesa legittima, a meno che ad avanzare tale richiesta sia una persona che «abitualmente presta a usura».
Ma come si fa a distinguere il tipo di mercante che presta denaro? È qui che i canonisti e teologi francescani diedero il loro meglio, scrivendo lunghe digressioni sulle eccezioni dell’usura e sulle mille casistiche concrete. Un ruolo essenziale lo svolgeva sempre la fama, un giudizio collettivo espresso da una comunità esperta composta dai mercanti onesti. Non capiamo l’etica economica medioevale e della prima modernità senza questa dimensione collettiva del mercato e dei mercanti. Il corpo sociale, con la sua intelligenza diffusa sapeva distinguere un usurario da un mercante. Nell’economia, e in ogni ambito complesso della vita, l’attività economica che uccide e quella che fa vivere si intrecciano ogni giorno, in ogni luogo. Solo chi sa entrare, per amore della propria gente, nelle midolla vive di questo intreccio riesce a servire l’economia e la vita. Il resto è, ieri e oggi, astratto moralismo, che finisce quasi sempre per nuocere alle persone oneste. Tutto questo l’Economia di Francesco lo sapeva, l’Economia di Francesco lo sa.
«Avvenire» del 21 novembre 2020

01 dicembre 2022

Aiuto, i nostri romanzi hanno perso le emozioni

di Elena Dusi
Lo "spirito del tempo" è ineffabile per definizione. Ma un motore di ricerca - anche in questo - può essere d'aiuto. Prendiamo Google e i cinque milioni di libri pubblicati tra il 1900 e il 2000 che sono stati digitalizzati e riposano nella sua pancia. In questi 500 miliardi di parole, nel corso del secolo, le espressioni legate alle emozioni sono diventate sempre più rare. I libri che trasudano sentimento non mancano certo, eppure pochi di noi esiterebbero a definire il nostro "spirito del tempo" come orientato verso un progressivo inaridimento.
Le galassie di parole legate a rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa sono diventate sempre più rare nei nostri libri. Lo ha calcolato un gruppo di antropologi e informatici coordinato dall'università di Bristol. A resistere è solo la paura. La presenza della più ancestrale fra le nostre emozioni è scesa nel corso del secolo, ma siè ripresa dagli anni ' 80. E la curva della gioia - si legge nello studio uscito oggi sulla rivista Plos One - segue un andamento sorprendentemente vicino agli avvenimenti storici del '900. Le espressioni di felicità in letteratura aumentano nei primi due decenni del secolo per poi inabissarsi con la Grande Depressione e l' arrivo delle dittature fino al conflitto. Il dopoguerra segna una ripresa, annullata negli anni '70.
Al ritorno di un certo ottimismo si assiste dagli anni '80 al 2000. «Abbiamo fotografato un andamento. Non ci azzardiamo a dare interpretazioni» spiega Alberto Acerbi, antropologo all'università di Bristol e coordinatore dello studio. «Le parole che esprimono emozioni hanno subito un calo eclatante. I dati sono nitidi, specialmente in corrispondenza degli eventi storici. Ma per legare le nostre osservazioni all'emergere di correnti letterarie avremmo bisogno dell'aiuto degli esperti». Lo studio è limitato ai libri pubblicati in inglese.
Per quanto riguarda l'Italia, il linguista Tullio De Mauro ha un'impressione diversa. «Studiare la frequenza dell'uso delle parole può aiutarci a capire come varia una cultura. Ma se dovessi dare un giudizio sulla lingua italiana, direi che è sempre più ricca di espressioni legate a sentimenti e di termini astratti. Crescono in maniera sorprendente le parole emotive e volgari insieme. L'"Antilingua" descritta da Italo Calvino (l'italiano astratto e vuoto parlato dal brigadiere) ha preso il sopravvento sulla lingua concreta del portiere. È come se chi scrive in italiano fosse preda di una sorta di "terrore semantico"».
Scavando in quella zuppa di parole che Google ha riversato nel suo database (i libri, pari al 4 per cento di tutti i volumi stampati nella storia, sono stati digitalizzati, ma non sono leggibilie l'elenco dei titoli è segreto per non violare i diritti d' autore), è emerso anche che la letteratura americana resta più emotiva rispetto a quella british. «Mentre in Gran Bretagna andavano le storie di spionaggio di Le Carré e Fleming, gli Usa avevano Vonnegut e Vidal» spiega Acerbi. In passato con metodi simili si era visto che l'"umore" degli utenti di Twitter può essere usato per prevedere la borsa o i risultati elettorali. Che diventare famosi oggi è molto più facile rispetto a un secolo fa, ma la popolarità ha durata brevissima. Che Dio non è morto, ma appare un terzo delle volte nei nostri libri rispetto al 1850 e che le canzoni rock americane dagli anni '80 usano spesso la parola "io", poco il "noi" e sono sempre più ricche di "odio", "uccidere" e "vaffanculo". Lo spirito del tempo, chiaramente.
«la Repubblica» del 21 marzo 2013