Partito democratico e politiche del lavoro
di Pietro Ichino
Uno dei motivi per cui nasce il Partito democratico - non il principale, ma neppure uno dei meno importanti - è la necessità per i liberal-democratici di uscire dai vicoli ciechi in cui la sinistra italiana si è cacciata nell’ultimo decennio in materia di politica del lavoro, pregiudicando la propria capacità progettuale, impedendosi di partecipare da protagonista al dibattito europeo su questi temi. La sinistra ci si è cacciata ogni volta che, per paura della discussione su qualcuno dei suoi vecchi punti fermi, ha scelto di difenderlo con uno slogan tassativo, quasi un precetto catechistico, che mirava a troncare la discussione sul nascere, ma anche a bruciarsi i ponti alle spalle, a precludersi qualsiasi futuro ripensamento. Per esempio: quando, intorno al 2000, si è incominciato - anche in seno al centrosinistra, con un progetto di legge di Tiziano Treu - a discutere della possibilità e opportunità di riformare la protezione contro i licenziamenti individuali, i Ds e la Cgil, seguiti ovviamente dalla sinistra radicale, hanno proclamato l’articolo 18 dello Statuto sacro e intangibile, in quanto «baluardo a difesa della libertà e della dignità della persona nel luogo di lavoro»; e su questo slogan hanno organizzato manifestazioni oceaniche. Lo slogan è falso, poiché nessuno può seriamente sostenere che centinaia di milioni di europei lavorino in condizioni poco dignitose e di sostanziale servaggio, perché privi dell’articolo 18; ma evocare la dignità e la libertà della persona umana era una mossa comoda ed efficace per chiudere la discussione prima ancora che si aprisse. Il nodo è poi venuto puntualmente al pettine nel 2002, quando la sinistra radicale, prendendo in parola Ds e Cgil, ha promosso il referendum per estendere il campo di applicazione dell’articolo 18 alle imprese con meno di 16 dipendenti. Logico: se è in gioco la libertà e la dignità delle persone, tutti devono goderne. Ma le cose non stanno così e l’estensione dell’inamovibilità di fatto del lavoratore anche alle imprese minori sarebbe una follia; per questo, l’anno dopo Ds e Cgil sono stati costretti a fare poco dignitosamente il pesce in barile, adoperandosi sostanzialmente perché il referendum fallisse. Intanto, però, sul piano della possibile riforma, il discorso era bloccato: col chiudere la questione in un cassetto gettando la chiave, Ds e Cgil si erano preclusi di affrontarla seriamente per un lungo tempo a venire. Ora il Libro verde sulla politica del lavoro dell’Unione Europea ci invita esplicitamente a ripensare la disciplina dei licenziamenti per motivi economici; ma il centrosinistra italiano si è posto in condizione di non poter partecipare utilmente a questa discussione: l’argomento è off limits. Saprà il Pd, con misura e intelligenza, liberarsi da questo blocco mentale? Qualche cosa di analogo accade sulla delicata questione della possibilità di differenziare gli standard minimi di trattamento per i lavoratori nelle regioni più povere e con disoccupazione più alta: qui la chiusura preventiva della discussione senza appello è affidata allo slogan «no alle gabbie salariali». In realtà, lasciare uno spazio alla contrattazione collettiva decentrata per differenziare il livello e la struttura delle retribuzioni, tenendo conto delle condizioni peculiari di ciascuna regione, è proprio il contrario dell’imporre una «gabbia»: la vera «gabbia», semmai, è lo sbarramento che impedisce di farlo. Ma l’artificio dialettico è efficacissimo: chi mai potrebbe essere favorevole a qualche cosa che si chiama «gabbia salariale»? Così quello slogan consente, anche qui, di calare una pietra tombale sulla questione del possibile decentramento della contrattazione degli standard minimi, nonostante che proprio questa sia la tendenza ormai nettamente prevalente nell’Occidente industrializzato. Al Pd non si chiede di essere pregiudizialmente favorevole o contrario a quella differenziazione di standard, ma solo di saper aprire su di essa una discussione pragmatica. È ancora lo stesso errore quello che la sinistra ha commesso quando ha precipitosamente demonizzato la legge Biagi, oppure lo «scalone pensionistico» (altro slogan efficacissimo) destinato a entrare in vigore nel 2008, solo perché varati dall’odiato governo di centrodestra; e ha ripetuto l’errore quando, ancora per questo solo motivo, di quelle norme ha avventatamente sancito la necessità dell’abrogazione ponendola addirittura tra i punti essenziali del proprio programma elettorale. Salvo poi scoprire che la legge Biagi è uno strumento utile contro l’abuso dei contratti di lavoro precari e quindi servirsene per questo scopo, come ha fatto il ministro del Lavoro Damiano nei call center; oppure dover riconoscere - come hanno fatto onestamente ma ahimè intempestivamente Massimo D’Alema e Piero Fassino nei giorni scorsi - che la regola della pensione a 60 anni, sia pure introdotta con lo «scalone» di Maroni, non è affatto iniqua e rende disponibili risorse utili per affrontare questioni sociali ben altrimenti urgenti (del resto, non era uno «scalone» ben più erto quello introdotto dalla riforma Dini del 1995, col voto del centrosinistra?). Il Partito democratico nasce anche per lasciarsi alle spalle questo modo fazioso e poco intelligente di affrontare le questioni, per consentire al centrosinistra di tirarsi fuori dai vicoli ciechi in cui si è cacciato in questi anni e di elaborare una politica del lavoro più pragmatica, più aperta al dubbio e alla sperimentazione. Ma su questo punto il nuovo partito deve avere il coraggio di dare fin d’ora un segnale inequivoco e forte.
«Corriere della sera» dell’11 luglio 2007
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