di Pierluigi Battista
«Su quale gamba?» fu la fantastica domanda che lo zelante inquisitore della Stasi rivolse al lettore tedesco-orientale di italiano che, torchiato a dovere al ritorno da un suo viaggio culturale in Italia, aveva confessato di essersi incontrato «con un uomo che zoppicava». E’ il «feticismo del dettaglio», come lo ha definito Sonia Combe, la maniacale, morbosa attenzione per il particolare tipica di uno Stato di polizia ficcanaso e invadente che vuole sapere tutto e intrufolarsi dappertutto: il regno della Stasi mirabilmente descritto da un film come «Le vite degli altri». Quel regno però, a leggere un libro come «La cultura all’ombra del muro» di Magda Martini pubblicato dal Mulino, ebbe in Italia servitori solerti e meticolosi. Non solo, come è ovvio, in casa Pci. Ma tra gli intellettuali che per un posto, un podio, una sinecura, una vetrina, intonarono senza vergogna un inno alla Stasi e alla Ddr. E che, mentre nella cosiddetta Repubblica democratica tedesca si costruiva il monumento al delirio poliziesco, erigevano a loro volta il monumento al servilismo. Come «contromisura» per una visita in Italia di Adenauer della Germania occidentale, il «Centro Thomas Mann», adibito alla lubrificazione dei rapporti tra la cultura italiana e la Germania comunista che negli anni Settanta verrà presieduto da un compagno di strada come Franco Antonicelli, riuscì a strappare il sostegno di Vittorio Gassman. Vittorio De Sica si adoperò per una collaborazione italiana con il Berliner Ensemble e ne venne ricompensato con il titolo di membro dell’Akademie der Künste di Berlino Est. Giorgio Strehler non risparmiò sforzi per stabilire un rapporto privilegiato con Bertolt Brecht. L’anno successivo alla costruzione del muro, intellettuali di fama come Giulio Carlo Argan, Ranuccio Bianchi Bandinelli (che si pentirà di aver definito la Ddr il germoglio di «una nuova cultura»), Remo Cantoni, Raffaele De Grada, Lavinia Mazzucchetti (la stessa Mazzucchetti che si rifiutava agli inviti dell’ambasciata della Germania Ovest in Italia perché non intendeva «porgere la mano a un assassino», chiunque fosse il suo interlocutore di Bonn) non esitarono a partecipare a una parata intitolata «Cultura e scienza al servizio della pace e della comprensione tra i popoli». Nella sfera privata e confidenziale, come rivela Magda Martini, il musicista Luigi Nono considerava un cumulo di «idiozie» la politica culturale della Ddr ma il suo nome compariva nei cartelloni dei grandi concerti della Germania comunista. Cesare Cases aveva precocemente riconosciuto il grigiore oppressivo di quella società, eppure all’indomani della caduta del muro invitava a non dimenticare della Ddr «gli aspetti positivi che aveva nonostante tutto». Un intellettuale comunista come Lucio Lombardo Radice si immolava nella difesa del dissidente tedesco orientale Robert Havemann, ma il suo partito, tramite diretti contatti tra Berlinguer e Honecker, si impegnava strenuamente per una co-produzione Italia-Ddr di un film diretto da Giuliano Montaldo sull’incendio del Reichstag e nel 1973 i dirigenti della Fgci si recavano in massa a Berlino Est per celebrare il Festival della Gioventù. Nella stessa Berlino Est dove, scrive la Martini, la polizia asfissiava le vite degli altri e la censura massacrava Primo Levi («soggettivo»), Nuto Revelli, Alberto Moravia («decadente»), Italo Calvino, Federico Fellini (ma non la «critica progressista» di «Umberto D» di De Sica). I nostalgici dell’era ideologica magnificano la nobiltà d’animo del «come eravamo». Come eravamo? Eravamo orrendi, così capaci di far finta di niente, come se la Stasi non fosse mai esistita.
«Corriere della sera» del 2 luglio 2007
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