Nel libro «Memoria e fedeltà» Leone Piccioni fa rivivere autori quasi dimenticati
di Raffaele La Capria
«Riscopriamo il 900 di Bilenchi, Soffici Cardarelli e Papini»
Diciamo la verità, chi legge oggi Moscardino di Pea? E chi, se non gli addetti ai lavori, legge i saggi di De Robertis? E Cardarelli, Bilenchi, quanti lettori hanno? E Soffici? Papini? Questi scrittori dimenticati fa rivivere Leone Piccioni nel suo libro Memoria e fedeltà (a cura di Santino G. Bonsera, Quaderni del Circolo Silvio Spaventa Filippi, Erreci Edizioni). Tra questi, quasi tutti «sommersi», solo Gadda e Ungaretti sono i «salvati». A proposito di Ungaretti, una volta ho chiesto per curiosità a Renata Colorni, che dirige la collana I Meridiani di Mondadori, qual era il Meridiano tra tutti più venduto. Quello di Ungaretti, mi rispose. Quello appunto curato da Leone Piccioni. Nella lettera a me indirizzata che apre il suo libro Piccioni ricorda che gli avevo domandato: «Chi sono i tuoi autori di riferimento?» In verità io sapevo già chi erano, ma la mia domanda era stata fatta per provocarlo, per sentirlo parlare a viva voce dei suoi autori. Perché, se si riesce a vincere la sua burbera riluttanza e la sua ritrosia, quando Piccioni parla di quegli autori è un piacere starlo a sentire. Ti sembra all’improvviso di averli accanto, di sentirne le parole, di conoscerli non solo come scrittori ma come persone, con le loro abitudini, le loro debolezze, le loro idiosincrasie e i loro tic. E questo si prova leggendo Memoria e fedeltà, il senso della vicinanza e della confidenza, la letteratura come pane quotidiano, come nutrimento necessario dell’anima. Vita e letteratura nelle sue pagine sembrano inscindibili: «De Robertis non era diverso per un allievo dalla cattedra al caffè, dalla conversazione alla lezione. Raccoglieva i suoi allievi preferiti al Caffè San Marco per poi spingersi in una passeggiata fino ai Lungarni o alle Cascine. (...) Piccolo di statura, mingherlino, con una bellissima faccia e degli occhi pieni di luce, camminava lentamente con il suo bastoncino chiacchierando con gli studenti che lo accompagnavano, o pensando e leggendo. Ai tempi della nostra frequentazione giovanile sui Lungarni leggeva Petrarca, ogni giorno due sonetti o una canzone, riflettendoci lungamente...». Ecco non solo un ritratto vivo, ma l’atmosfera di certe sere a Firenze, l’aria di quel tempo che sembra così lontano, l’idea di una vita letteraria che oggi non c’è più, fatta di incontri, di conversazioni al caffè, di passeggiate. E non sembra di vedere anche lui, l’autore di questo libro, il giovane e fervente Leone Piccioni accompagnarsi e animatamente conversare col suo maestro? «Della letteratura italiana del Novecento si occupavano in quegli anni in pochi, ma si aveva a che fare con persone di alto profilo: dopo la lezione di Serra, De Robertis appunto, Cecchi, Gargiulo, Solmi, Debenedetti, e i più giovani Bo e Contini. (...) Un panorama certo molto diverso da quello di oggi: erano tempi in cui il lavoro del critico era facilitato rispetto ai nostri giorni. Scarsa era la produzione letteraria rispetto a quella di oggi (...) ed era più facile distinguere nella letteratura, come diceva De Robertis, gli ufficiali dai sottufficiali...». Questa differenza tra quell’epoca e la nostra, che corre dietro miti spesso inconsistenti e considera ufficiali gente che non merita neppure la ramazza, è il sottotesto di questo libro e fa trapelare l’amarezza per lo stato presente della nostra cultura e per la sua «iniqua» indifferenza verso una letteratura che sta a cuore a Piccioni. Questa amarezza trapela anche dalla lettera da lui a me diretta, quando, dopo aver fatto l’elenco dei suoi autori di riferimento, aggiunge la frase: «Anche se credo che poco t’interessi». Perché crede che poco m’interessi se gliel’ho domandato? Perché in realtà quella frase non riguarda me, ma la situazione presente della nostra cultura, che si è mostrata «incapace di maturare un giudizio privo di rancore» su molti autori di cui Piccioni scrive in questo suo libro. C’è una differenza tra il critico e il testimone: il primo ha a che fare con l’opera di uno scrittore, la analizza e la interpreta. Il secondo invece ha conosciuto di persona lo scrittore, ne ha ascoltato le opinioni, ne ricorda le parole, lo stato d’animo in cui furono pronunciate, e cosi via... In questo libro Leone Piccioni si presenta nella doppia veste di critico e testimone, e le due cose strettamente connesse danno vita e valore alle sue pagine, ne rendono piacevole la lettura, e divertente quando si sofferma sugli aneddoti. Per concludere, prendendo come esempio il capitolo su Cardarelli, e servendomi di citazioni, vorrei far vedere i tre modi scelti da Leone Piccioni per accostarsi all’autore. Il critico scrive: «Perché è lui più di ogni altro che ha creato da noi un tipo particolare di composizione, a cavallo tra la sintesi della prosa, e l’ispirazione e la risultante della poesia: teso ad effetti lirici per forza di un linguaggio tutto di memoria, traendo elementi ed oggetti da immemorabili radici, vivi, splendenti, come quelli dei guerrieri etruschi tante volte descritti, nella loro luce, recuperati in profondità sotterranee, con secoli e secoli di lontananza. Ma come loro (se pur bastava un soffio a distruggerli) non effimeri: occupano un’epoca della nostra vita e dei nostri interessi, hanno inciso sul gusto, sul sentire, sul linguaggio di una generazione che non dimentica. Effetti nati antichi, patinati dal resistere alle epoche, fuori della caducità di un tempo». Sempre del Cardarelli prosatore il testimone scrive: «Pareva distante, assente o quasi, ma bastò la pubblicazione delle Lettere da Tarquinia a dar vita drammatica a questo tono di distacco, a rivelarlo uomo (e anche vecchio) forse non sereno, ma procelloso e combattivo, timoroso anche, ma umano in quel suo letto grande da ricordare il talamo di Ulisse, per dormirci con a lato la morte, sospettoso di poter seguire alcuni "più frettolosi"». E infine il testimone si trasforma in divertito chroniqueur: «Cardarelli era amico sincero dei fratelli Conti... si era fatto prestare (da loro) un po’di soldi. Ma un giorno viene a sapere che in un incidente d’auto i due fratelli sono morti. Si preoccupò subito di essere almeno presente alla cerimonia funebre (...). Erano da poco iniziate quelle tremende pratiche che precedono il funerale: con la fiamma ossidrica gli operai avevano cominciato a chiudere le bare. Cardarelli assistette compunto e scosso a tutta quella cerimonia, fino a che le casse non furono completamente chiuse. Allora disse: "E ora si può dire che i conti sono saldati"». Ecco come il critico, il testimone, il chroniqueur si alternano in questo libro e ne rendono gradevole la lettura. La stessa varietà si ritrova negli altri saggi dedicati con devozione critica e ironica partecipazione a Saba, Pea, Gadda, Bilenchi, De Robertis, Ungaretti, Soffici, Papini. C’è poi un’appendice con scritti su Foscolo, Leopardi, Pavese.
«Corriere della sera» del 13 luglio 2007
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