di Bruno Fasani
La notizia può sembrare di poco conto, ma merita attenzione. L’altro giorno la televisione tedesca ha rinunciato a trasmettere i servizi sul Tour de France, in aperta polemica con un corridore di casa trovato positivo all’antidoping. Un giorno di oscuramento, ma con la minaccia di ritirare definitivamente gli inviati. Il motivo è stata la protesta pubblica, ma sarebbe corretto dire l’indignazione collettiva, dopo la scoperta che un altro corridore tedesco, che pure s’è ritirato dalla competizione, era stato trovato positivo all’antidoping. Insomma, la Germania ha detto basta a farsi strumentalizzare da uno sport che, giorno dopo giorno, sta rivelando l’abisso dov’è sprofondato.
La questione porta subito a domandarsi: ma la televisione e l’informazione, in generale, devono collocarsi al di sopra del bene e del male raccontando i fatti a prescindere dalla loro moralità, o devono assumersi una qualche responsabilità etica? La logica porterebbe a privilegiare la prima ipotesi; se non fosse che i media hanno una loro responsabilità nel creare una certa enfasi culturale e muovere una montagna di denaro dietro ai fenomeni sportivi di massa. Al Tour de France sono accreditate 72 televisioni da tutto il mondo e oltre 70 radio. Un’organizzazione impressionante se solo si pensa a quanti uomini, macchine, inviati esige ogni postazione. Televisioni che vanno a caccia di pubblicità e che, a loro volta, stornano fortune a vantaggio delle squadre partecipanti. Un circolo vizioso che risveglia appetiti e ingordigie, che fa lievitare costi e ingaggi, che crea la cultura del campione a tutti i costi e del personaggio in funzione dell’audience.
E se il denaro cresce con la cultura dello straordinario, va da sé che fiorisce uno sport che rifugge sistematicamente dall’ordinario. Dove, per ordinario, significa misurarsi con le effettive capacità umane. Ma cosa ce ne importa se i corridori fanno la media dei 52 km all’ora, se poi scopriamo che questi sono la vittoria della chimica piuttosto che delle gambe?
Fateli arrivare un quarto d’ora dopo, ma fate emergere evidente che l’essere campioni appartiene alla logica della natura e non a quella dei laboratori!
In questo senso, il silenzio dell’informazione acquista valore non tanto come autocensura davanti ai fatti, ma come presa di coscienza del fatto che essa possiede una precisa responsabilità nel creare enfasi e aspettative, perché tutto sia clamoroso e fuori della norma.
Abbiamo parlato di ciclismo, ma il discorso si allargherebbe facilmente agli altri sport e ad altri programmi. Penso al calcio, in particolare, ma senza far passare in secondo piano la produzione di stupidità, magari in nome dell’intrattenimento.
Che senso ha trasmettere e produrre format che incrementano la cultura dei campioni del nulla, isole varie e fratelli, grandi, piccoli, saggi o stupidi che siano? Qual è la responsabilità del mondo dei media nel favorire grandezze da velina, campioni dalle ruote buche, pronti a immolarsi per un passaggio da Lele Mora o al Billionaire in Costa Smeralda?
L’autocensura della televisione tedesca ha una valenza simbolica, che assomiglia ad un sussulto di dignità. Se la Tv non può prestarsi a grandezze di cartapesta, è giusto che faccia un passo indietro tutte le volte che la società rischia di finire incartata nella carta straccia. La responsabilità sociale non domanda di nascondere le notizie, ma neppure di andarne a costruire di fittizie. Così come la coscienza civile non può essere ricostruita soltanto facendo i moralismi contro la politica, ma deve cominciare prima di tutto da una nuova responsabilità di chi ha il potere di fare opinione pubblica, modificando, nel bene e nel male, la cultura.
Se il marcio dello sport ci aiutasse a fare un ragionamento di più ampio respiro, avremmo fondati motivi di ottimismo, non solo per il futuro dello sport, ma per quello della società nel suo complesso.
La questione porta subito a domandarsi: ma la televisione e l’informazione, in generale, devono collocarsi al di sopra del bene e del male raccontando i fatti a prescindere dalla loro moralità, o devono assumersi una qualche responsabilità etica? La logica porterebbe a privilegiare la prima ipotesi; se non fosse che i media hanno una loro responsabilità nel creare una certa enfasi culturale e muovere una montagna di denaro dietro ai fenomeni sportivi di massa. Al Tour de France sono accreditate 72 televisioni da tutto il mondo e oltre 70 radio. Un’organizzazione impressionante se solo si pensa a quanti uomini, macchine, inviati esige ogni postazione. Televisioni che vanno a caccia di pubblicità e che, a loro volta, stornano fortune a vantaggio delle squadre partecipanti. Un circolo vizioso che risveglia appetiti e ingordigie, che fa lievitare costi e ingaggi, che crea la cultura del campione a tutti i costi e del personaggio in funzione dell’audience.
E se il denaro cresce con la cultura dello straordinario, va da sé che fiorisce uno sport che rifugge sistematicamente dall’ordinario. Dove, per ordinario, significa misurarsi con le effettive capacità umane. Ma cosa ce ne importa se i corridori fanno la media dei 52 km all’ora, se poi scopriamo che questi sono la vittoria della chimica piuttosto che delle gambe?
Fateli arrivare un quarto d’ora dopo, ma fate emergere evidente che l’essere campioni appartiene alla logica della natura e non a quella dei laboratori!
In questo senso, il silenzio dell’informazione acquista valore non tanto come autocensura davanti ai fatti, ma come presa di coscienza del fatto che essa possiede una precisa responsabilità nel creare enfasi e aspettative, perché tutto sia clamoroso e fuori della norma.
Abbiamo parlato di ciclismo, ma il discorso si allargherebbe facilmente agli altri sport e ad altri programmi. Penso al calcio, in particolare, ma senza far passare in secondo piano la produzione di stupidità, magari in nome dell’intrattenimento.
Che senso ha trasmettere e produrre format che incrementano la cultura dei campioni del nulla, isole varie e fratelli, grandi, piccoli, saggi o stupidi che siano? Qual è la responsabilità del mondo dei media nel favorire grandezze da velina, campioni dalle ruote buche, pronti a immolarsi per un passaggio da Lele Mora o al Billionaire in Costa Smeralda?
L’autocensura della televisione tedesca ha una valenza simbolica, che assomiglia ad un sussulto di dignità. Se la Tv non può prestarsi a grandezze di cartapesta, è giusto che faccia un passo indietro tutte le volte che la società rischia di finire incartata nella carta straccia. La responsabilità sociale non domanda di nascondere le notizie, ma neppure di andarne a costruire di fittizie. Così come la coscienza civile non può essere ricostruita soltanto facendo i moralismi contro la politica, ma deve cominciare prima di tutto da una nuova responsabilità di chi ha il potere di fare opinione pubblica, modificando, nel bene e nel male, la cultura.
Se il marcio dello sport ci aiutasse a fare un ragionamento di più ampio respiro, avremmo fondati motivi di ottimismo, non solo per il futuro dello sport, ma per quello della società nel suo complesso.
«Il Giornale» del 20 luglio 2007
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