Guglielmi: si scrive solo pensando al video. Anche il libro di Ammaniti mi ha deluso
di Paolo Di Stefano
Difficile per un critico resistere alla tentazione di dare un giudizio su Niccolò Ammaniti, fresco vincitore del premio Strega. Tanto più che Angelo Guglielmi arriva dopo la stroncatura in diretta tv pronunciata da Mario Fortunato. «È curioso - considera Guglielmi -, dopo racconti e romanzi straordinari da narratore puro, come Branchie, Fango, Io non ho paura, Ammaniti è uscito con questo Come Dio comanda, un libro deludente, totalmente costruito. È partito dall' idea che la realtà d' oggi è una realtà nera e si è detto: adesso vediamo come posso servire con un romanzo questa tesi prefabbricata. Il mondo va scoperto dopo, senza forzature, non raccontato a posteriori con storie che nascono già concluse». Scherzi del caso, la tv che lo ha battuto sul tempo è proprio uno dei poli del potere culturale e creativo su cui Guglielmi ha puntato l' attenzione. Un potere che è uno e trino: editoria a stampa, televisione e cinema. Con scambi reciproci più o meno fecondi ma crescenti. È questo il nodo su cui intende discutere il convegno Bolognese, che apre il festival Le Parole dello Schermo, voluto da Angelo Guglielmi nelle vesti di assessore alla Cultura. Il critico letterario che fu vicino alla neoavanguardia e che poi ha preso strade sue, il mitico direttore di Rai Tre, creatore di Blob e di Chi l'ha visto - per dire due trasmissioni che durano da decenni - oggi è un organizzatore culturale che guarda con ironia e distacco alla tv e che non nasconde la sua preferenza per la letteratura. Tant' è che da decenni, lui che ama cambiare attività di continuo, non smette di leggere romanzi e di scrivere recensioni. E in fondo sembra proprio che questo convegno, che mette in gioco il dialogo tra narrativa, cinema e televisione, sia stato pensato a difesa dell' anello più debole di una catena che è sì creativa, ma soprattutto economica: e cioè la letteratura. Anche se, come precisa lo stesso Guglielmi nel suo intervento introduttivo, «gli ultimi studi e ricerche ci dicono che oggi più della metà dei film prodotti nel mondo nascono e sono adattamenti di trame e racconti di libri di ieri e di oggi». Ma paradossalmente è proprio questa tendenza apparentemente favorevole a indebolire la letteratura. Dunque, secondo Angelo Guglielmi, perché la letteratura, che sembra ancora detenere la forza generativa delle storie e degli intrecci, soffre queste relazioni con il cinema e soprattutto con la televisione? «Perché è costretta dentro un pubblico che non è il suo. Questo è, per usare una brutta parola, il danno che la tv compie sulla letteratura e anche sul cinema: d' altra parte gli editori ne sono felici perché questo "danno" è molto remunerativo. Oggi ci sono migliaia di romanzi che vengono pensati in chiave televisiva o cinematografica e si fa fatica a trovare uno scrittore di punta che osi scrivere diversamente rispetto ai moduli semplificati adatti alla tv». Stiamo parlando della letteratura di genere: giallo, noir, eccetera? «Escono in libreria un sacco di storie vestite bene. Non c' è nessuno oggi che non sappia vestire bene un romanzo... Ma si tratta di romanzi intimisti o di trame d' azione che non ti comunicano niente che tu già non sappia. Puoi notare il bel vestito, ma niente di più». Ma il «bel vestito» è comunque qualcosa di nuovo rispetto alla letteratura del passato. «Sì, dagli anni 70 si è creato un vuoto che è stato colmato con l' apprendimento della scrittura narrativa. Una volta lo scrivere male era un segno di qualità, il segno di un linguaggio diverso, non comunicativo. Oggi tutti gli scrittori hanno fatto il salto verso il linguaggio parlato, convinti che sia più vivo e che rompa la convenzionalità letteraria. Il parlato è diventato il massimo della trasgressione, basta vedere la presenza nei romanzi di ripetizioni, anacoluti, errori. Si è appreso un rapporto più disinvolto con il linguaggio e si producono romanzi di buon livello». E sul piano delle strutture, abbiamo scoperto il genere... «Gli italiani non hanno mai saputo scrivere gialli, cosa che sanno fare meglio gli americani o gli inglesi. Il thrilling non rientra nel nostro Dna, più disposto al dramma psicologico o di idee. Da qualche tempo la maggior parte della narrativa italiana o comunque quella di maggior successo, e forse di miglior qualità, appartiene al genere giallo, noir o poliziesco». La televisione ha favorito questo nuovo modo di scrivere? «Direi che il massiccio ritorno al genere è dovuto anche alla tv: sono libri di facile riconoscimento che servono alla televisione e le case editrici volentieri favoriscono la domanda televisiva o cinematografica, ne accettano lo stimolo e la sollecitazione. Così, ci si muove entro spazi prefissati e poco originali ma interessanti sul piano commerciale, perché soddisfano il grande pubblico televisivo». Ma scrittori come Camilleri e Lucarelli, che hanno richiamato verso il romanzo un pubblico non abituale, alla fine hanno fatto bene o male alla letteratura? «Camilleri è il più furbo: ha capito che con la capacità di attrazione dell' intreccio doveva coinvolgere anche la lingua e attraverso il suo siciliano ha realizzato con astuzia questo proposito. Ovviamente non è né Verga né Vittorini, ma funziona per il mercato televisivo». E Lucarelli? «Le sue sono storie di facile presa ma caricate di una forte tensione civile: una volta si diceva che gli italiani non sapevano raccontare il loro Paese. Oggi, con il giallo, questa critica è superata. Ovvio che non sempre Lucarelli coglie l' obiettivo: varia da libro a libro, ma è interessante». In fondo, la neoavanguardia si era opposta proprio a questo: a una letteratura «impegnata», che avesse intenti direttamente politici: «Noi ci opponevamo a un' idea zdanoviana della letteratura che servisse alla politica, come se fosse l' ideologia a dettare le regole agli scrittori... Uno scrittore quale Manganelli, che per me è il più grande dopo Gadda, è stato un grande raccontatore di parole in un momento in cui le cose erano prive di peso». Voi rivendicavate l' importanza dell' illeggibilità. «Certo, oggi le cose sono cambiate, è giusto recuperare i contenuti, i referenti concreti e materiali, e le tramacce di Lucarelli e di De Cataldo hanno in questo senso un valore etico apprezzabile. Ovvio poi che la tv ha spalancato loro spazi enormi perché è di quello che aveva bisogno..., un' attualità che la gente può capire facilmente». L' attualità della camorra, per esempio? «C' è un equivoco. Gomorra di Saviano non è un romanzo, è un' inchiesta fatta con buona conoscenza dei fatti e con una giusta dose di furbizia nella scrittura, anche se si tratta di un libro molto ripetitivo. Diciamo che risponde sempre agli stessi modelli pur essendo un libro di forte denuncia». Se da Bologna dovesse uscire un appello a difesa di un' altra letteratura, a chi bisognerebbe rivolgerlo? «Agli editori. Perché a fianco del giallo aprano spazi che non rispondano solo alle esigenze di quella grande produttrice di contenuti popolari che è la televisione. Il desiderio sarebbe quello di avere un' editoria capace ancora di coltivare ricerche per altri pubblici o addirittura ricerche che non abbiano pubblico ma da cui possa nascere quel che oggi manca, e cioè qualcosa di nuovo e sorprendente. Nei primi anni del Novecento abbiamo avuto i futuristi, Picasso, Proust che pubblicò a proprie spese..., da noi Pirandello e Svevo... In questi primi anni del Duemila non è ancora successo niente di nuovo». Ci saranno però delle esperienze più interessanti di altre... «Ci sono punte interessanti. Scrittori come Covacich e Scurati, per esempio, vanno in direzioni diverse. Nove, Scarpa, la Vinci, per esempio, non so se rimarranno nel tempo, non intendo darne un giudizio di valore, ma hanno compiuto un gesto di rottura rispetto all' attualità più banale: diciamo piuttosto che non mi portano dove so di essere ma mi aiutano a perdermi e a ricercarmi nello smarrimento».
«Corriere della sera» del 7 luglio 2007
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