di Ezio Savino
C’era una volta un re. Dominava Babilonia e le isole. Era arrogante, pieno di sé. Convocò architetti e capomastri. Impose ai maghi di corte di concepire il disegno di un edificio così involuto e arduo che un uomo prudente non vi si sarebbe avventurato mai, e uno stolto, entrato, non avrebbe più scoperto l’uscita. Progetto scandaloso, perché solo Dio ha facoltà di confondere e meravigliare gli uomini. E facendosi costruire quel labirinto, il monarca s’identificava con il Creatore, prenotandosi lo sfacelo.
Accadde che il re degli Arabi venisse in visita a Babilonia. Al collega non sembrò vero di umiliare un pari grado. Lo fece scortare all’ingresso del dedalo, lo immerse nei meandri. Solo al tramonto, e invocando il soccorso di Allah, l’arabo rinvenne l’entrata. Non recriminò. Si limitò a rivelare che dalle sue parti i labirinti non perdonavano. Il suo ospite l’avrebbe sperimentato, quando avesse voluto. L’arabo tornò a bussare a Babilonia, ma questa volta con soldati e carri da guerra. Rase in cenere il paese, labirinto di bronzo compreso, con tutte le porte, le giravolte e i ciechi anditi. Legò il rivale su un cammello e lo condusse al centro del suo deserto. Qui non si scorgevano portali, né budelli di pietra, né reticoli murari. Lasciato a se stesso, il re sconfitto non fece più ritorno. Le sue ossa biancheggiarono sulla sabbia senza confini.
Dobbiamo il racconto, I due re e i due labirinti, alla penna argentina di Jorge Luis Borges. L’apologo è labirintico, non solo perché l’arcano, letale groviglio di spazi ne è cuore, ma anche perché è esso stesso diverticolo narrativo che s’incastra in più ampie estensioni. Forma l’appendice (e la chiave, uno dei molteplici fili d’Arianna) dell’immaginoso Abenjacàn il Bojarí, ucciso nel suo labirinto. Qui teatro è la Cornovaglia, sperone sudoccidentale di Albione, preistorico polo commerciale dello stagno, prima che culla celtica e scenario di avventure arturiane. I labirinti vi sono di casa. Nereggiano sulle alture le Cornish stones, tortuosi allineamenti megalitici in funzione di capisaldi fortificati, ma vi si ergono anche castelli (Tintagel è il più evocativo) e vi si interrano cunicoli minerari.
Non è dunque peregrino che Borges vi ambienti le conversazioni di Dunraven, il poeta, e di Unwin, il matematico (fantasia mitica e rigore algoritmico si intrecciano, nel labirinto), due improvvisati esploratori che alla vigilia della prima catastrofe mondiale (siamo nell’estate del 1914), si propongono di sviscerare il mistero della morte del re di Babele (la Babilonia della menzionata parabola). Il forestiero, giunto per nave nelle lande di Cornwall flagellate dai venti oceanici, vi fa costruire dai muratori locali, assoldati per l’impresa, un inestricabile gomitolo di muraglie, tinteggiate di un cremisi che i secoli e il maestrale sbiancano a enigmatico ossame di pietra. Giravolte concentriche, con false porte, strettoie, sbalzi di livello che conducono a un’inaccessibile camera centrale. Fortezza e carcere, sontuosa cassaforte e cella espiatoria, la stanza interna era divenuta la dimora estrema di Abenjacàn.
Ve l’avevano sospinto i rimorsi e la paura. I primi lo assediavano per l’assassinio di Zaid, suo cugino e vizir, sgozzato con la scimitarra da Abenjacàn per strappargli lo scrigno del tesoro reale, unico, cruento relitto di un potere di ferro scampato alla ribellione della sua tribù. La seconda l’ossessionava, perché l’omicida presentiva che l’ombra di Zaid l’avrebbe raggiunto in capo al mondo, per ucciderlo e sfigurargli il volto a colpi di pietra, come il despota aveva fatto con il congiunto. Perciò Abenjacàn si era fatto circondare dall’ingannevole ragnatela di mattoni. Un leone lucido come l’oro e uno schiavo nero come la notte collaboravano alla sorveglianza. Tutto fu vano. Nessun labirinto è inviolabile. Col tempo si scoprirono nell’andito degli orrori tre cadaveri mostruosamente mutilati del volto: qualcuno aveva giustiziato la bestia da guardia, il custode-carceriere e Abenjacàn. Il forziere di bronzo arabescato d’avorio, naturalmente, era vuoto. Si erano avverate le fosche previsioni del locale pastore Allaby, che dal pulpito aveva segnalato ai suoi devoti la blasfema pericolosità dell’enigmatica costruzione, scabbia della corrotta cultura d’oriente trapiantata nella verginità rocciosa e barbarica dell’innocente Cornovaglia: suo era l’edificante I due re e i due labirinti. Il vero assassino era Zaid. Aveva costruito la trappola mostruosa per attirarvi la vittima, spogliarla delle monete, ma soprattutto dell’identità. Rinato come falso Abenjacàn, con le credenziali del defunto, Zaid scompare nel suo oriente nativo con l’oro da favola.
Mistero, aggrovigliata architettura, uno spazio centrale - rifugio, clausura, trabocchetto - tragitto penoso, morte e rinascita: gli elementi costitutivi del labirinto si ammassano in questi racconti di Borges, che all’intrico consacrò riflessioni e versi, scorgendovi l’infinita catena di cause ed effetti, la diversità delle creature che compongono un universo tanto singolare e incommensurabile che la linea retta è tale solo perché non ne se distingue la sterminata curvatura e, al contrario, l’abissale capocchia di spillo di un Aleph, punto in cui tutti i punti s’addensano, ne è stregonesco involucro.
I costruttori che intorno al 2000 a.C. livellarono la sommità di Kefala, a Cnosso, isola di Creta, per agglutinarvi, secolo dopo secolo, camere, cunicoli, cortili e passaggi, fondando il dedalo originario (più cammini che sboccano a un unico centro, mentre il labirinto puro, o unicursale, mostra una sola via, che il viaggiatore percorre doppia, per conquistare il nucleo, e riemergerne), innescarono l’enigma. Che cos’era il prodigioso mosaico di ambienti? Le leggende narravano di uno schizofrenico monarca, Minosse, spietato esattore di vittime umane, ma patrono dei giudici, tanto che gli fu assegnato il tribunale dei morti. Se l’era fatto costruire dal greco Dedalo (che brevettò la squadra, la sega, la statuaria, le vele e, forse, le spericolate ali di penne e cera) per seppellirvi il Minotauro. I primi scopritori moderni, fra cui Arthur Evans, interpretarono il labirinto come palazzo dei despoti minoici. Scorsero nell’ascia doppia, làbrys, emblema dei re cretesi, signori della luna crescente e calante, il nocciolo del nome. Altri vi lessero una necropoli. Aggiornate rivisitazioni ne sembrano chiarire la funzione di santuario, agglomerato di zone cerimoniali, abbazia e Vaticano di un organismo statale accentrato e teocratico. Attraversandole, il fedele rinasceva a vita nuova. Percorso di purificazione, il labirinto potrebbe dunque essere un itinerario per l’anima. E dislocarsi nell’aldilà.
L’uccisore del Minotauro, Teseo, risorse dal dedalo grazie al filo fornito dall’innamorata Arianna. Ma per viaggiare nei bui meandri dell’Ade, dove i minotauri sono il terrore della morte e dell’eterno castigo riservato al peccatore, servono altri viatici. Le sette orfiche rilasciavano agli adepti mappe dettagliate, laminette d’oro con incise le tappe salvifiche. Enea non si avventura nell’oltremondo senza il passaporto del ramo d’oro. La funzione di pellegrinaggio simbolico spiegherebbe il rifiorire del labirinto, grafico di salvazione, nella stagione delle cattedrali gotiche. La Francia è l’eden di questi itinerari penitenziali. Tra i più sontuosi, il chemin de Jhèrusalem tappezza in pietre azzurre e bianche, per 250 metri di circonvoluzioni, il pavimento della cattedrale di Chartres. Sostituto economico del tragitto alla città del Santo Sepolcro, il pio ghirigoro garantiva al fedele un’esperienza simbolica di redenzione.
Il fascino del labirinto è racchiuso anche nella sua vitalità di segno che si moltiplica nello spazio e nel tempo. Non c’è cultura che lo ignori. La sua permeabilità rischiosa ne fa una barriera per gli spiriti nocivi, tenendoli alla larga: steso in forma di acciottolato o di viluppo vegetale intorno alle abitazioni, ne trattiene e difende la positività intima di geloso rifugio. La sua energia liberatoria si dispiega nel gioco, che sia «dell’oca», o «del mondo» o «della campana», provvisori schemi dedalei che hanno conosciuto il gioioso saltellare infantile sotto ogni cielo. Secondo Jacques Attali, i nostri giorni celebrano, trionfale, il ritorno del labirinto, che si manifesta nell’impero delle reti, metropolitane, telematiche, informatiche, genetici, nelle spirali del DNA. I nuovi Minosse, i signori della politica e della finanza, devono garantirsi i servigi dei moderni Dedali, artefici di griglie. Più che nel brancolare del linguista o dell’archeologo, il mistero del dedalo freme nell’intuizione del poeta: il vero labirinto è senza schemi, senza muraglie. Si chiama universo.
Accadde che il re degli Arabi venisse in visita a Babilonia. Al collega non sembrò vero di umiliare un pari grado. Lo fece scortare all’ingresso del dedalo, lo immerse nei meandri. Solo al tramonto, e invocando il soccorso di Allah, l’arabo rinvenne l’entrata. Non recriminò. Si limitò a rivelare che dalle sue parti i labirinti non perdonavano. Il suo ospite l’avrebbe sperimentato, quando avesse voluto. L’arabo tornò a bussare a Babilonia, ma questa volta con soldati e carri da guerra. Rase in cenere il paese, labirinto di bronzo compreso, con tutte le porte, le giravolte e i ciechi anditi. Legò il rivale su un cammello e lo condusse al centro del suo deserto. Qui non si scorgevano portali, né budelli di pietra, né reticoli murari. Lasciato a se stesso, il re sconfitto non fece più ritorno. Le sue ossa biancheggiarono sulla sabbia senza confini.
Dobbiamo il racconto, I due re e i due labirinti, alla penna argentina di Jorge Luis Borges. L’apologo è labirintico, non solo perché l’arcano, letale groviglio di spazi ne è cuore, ma anche perché è esso stesso diverticolo narrativo che s’incastra in più ampie estensioni. Forma l’appendice (e la chiave, uno dei molteplici fili d’Arianna) dell’immaginoso Abenjacàn il Bojarí, ucciso nel suo labirinto. Qui teatro è la Cornovaglia, sperone sudoccidentale di Albione, preistorico polo commerciale dello stagno, prima che culla celtica e scenario di avventure arturiane. I labirinti vi sono di casa. Nereggiano sulle alture le Cornish stones, tortuosi allineamenti megalitici in funzione di capisaldi fortificati, ma vi si ergono anche castelli (Tintagel è il più evocativo) e vi si interrano cunicoli minerari.
Non è dunque peregrino che Borges vi ambienti le conversazioni di Dunraven, il poeta, e di Unwin, il matematico (fantasia mitica e rigore algoritmico si intrecciano, nel labirinto), due improvvisati esploratori che alla vigilia della prima catastrofe mondiale (siamo nell’estate del 1914), si propongono di sviscerare il mistero della morte del re di Babele (la Babilonia della menzionata parabola). Il forestiero, giunto per nave nelle lande di Cornwall flagellate dai venti oceanici, vi fa costruire dai muratori locali, assoldati per l’impresa, un inestricabile gomitolo di muraglie, tinteggiate di un cremisi che i secoli e il maestrale sbiancano a enigmatico ossame di pietra. Giravolte concentriche, con false porte, strettoie, sbalzi di livello che conducono a un’inaccessibile camera centrale. Fortezza e carcere, sontuosa cassaforte e cella espiatoria, la stanza interna era divenuta la dimora estrema di Abenjacàn.
Ve l’avevano sospinto i rimorsi e la paura. I primi lo assediavano per l’assassinio di Zaid, suo cugino e vizir, sgozzato con la scimitarra da Abenjacàn per strappargli lo scrigno del tesoro reale, unico, cruento relitto di un potere di ferro scampato alla ribellione della sua tribù. La seconda l’ossessionava, perché l’omicida presentiva che l’ombra di Zaid l’avrebbe raggiunto in capo al mondo, per ucciderlo e sfigurargli il volto a colpi di pietra, come il despota aveva fatto con il congiunto. Perciò Abenjacàn si era fatto circondare dall’ingannevole ragnatela di mattoni. Un leone lucido come l’oro e uno schiavo nero come la notte collaboravano alla sorveglianza. Tutto fu vano. Nessun labirinto è inviolabile. Col tempo si scoprirono nell’andito degli orrori tre cadaveri mostruosamente mutilati del volto: qualcuno aveva giustiziato la bestia da guardia, il custode-carceriere e Abenjacàn. Il forziere di bronzo arabescato d’avorio, naturalmente, era vuoto. Si erano avverate le fosche previsioni del locale pastore Allaby, che dal pulpito aveva segnalato ai suoi devoti la blasfema pericolosità dell’enigmatica costruzione, scabbia della corrotta cultura d’oriente trapiantata nella verginità rocciosa e barbarica dell’innocente Cornovaglia: suo era l’edificante I due re e i due labirinti. Il vero assassino era Zaid. Aveva costruito la trappola mostruosa per attirarvi la vittima, spogliarla delle monete, ma soprattutto dell’identità. Rinato come falso Abenjacàn, con le credenziali del defunto, Zaid scompare nel suo oriente nativo con l’oro da favola.
Mistero, aggrovigliata architettura, uno spazio centrale - rifugio, clausura, trabocchetto - tragitto penoso, morte e rinascita: gli elementi costitutivi del labirinto si ammassano in questi racconti di Borges, che all’intrico consacrò riflessioni e versi, scorgendovi l’infinita catena di cause ed effetti, la diversità delle creature che compongono un universo tanto singolare e incommensurabile che la linea retta è tale solo perché non ne se distingue la sterminata curvatura e, al contrario, l’abissale capocchia di spillo di un Aleph, punto in cui tutti i punti s’addensano, ne è stregonesco involucro.
I costruttori che intorno al 2000 a.C. livellarono la sommità di Kefala, a Cnosso, isola di Creta, per agglutinarvi, secolo dopo secolo, camere, cunicoli, cortili e passaggi, fondando il dedalo originario (più cammini che sboccano a un unico centro, mentre il labirinto puro, o unicursale, mostra una sola via, che il viaggiatore percorre doppia, per conquistare il nucleo, e riemergerne), innescarono l’enigma. Che cos’era il prodigioso mosaico di ambienti? Le leggende narravano di uno schizofrenico monarca, Minosse, spietato esattore di vittime umane, ma patrono dei giudici, tanto che gli fu assegnato il tribunale dei morti. Se l’era fatto costruire dal greco Dedalo (che brevettò la squadra, la sega, la statuaria, le vele e, forse, le spericolate ali di penne e cera) per seppellirvi il Minotauro. I primi scopritori moderni, fra cui Arthur Evans, interpretarono il labirinto come palazzo dei despoti minoici. Scorsero nell’ascia doppia, làbrys, emblema dei re cretesi, signori della luna crescente e calante, il nocciolo del nome. Altri vi lessero una necropoli. Aggiornate rivisitazioni ne sembrano chiarire la funzione di santuario, agglomerato di zone cerimoniali, abbazia e Vaticano di un organismo statale accentrato e teocratico. Attraversandole, il fedele rinasceva a vita nuova. Percorso di purificazione, il labirinto potrebbe dunque essere un itinerario per l’anima. E dislocarsi nell’aldilà.
L’uccisore del Minotauro, Teseo, risorse dal dedalo grazie al filo fornito dall’innamorata Arianna. Ma per viaggiare nei bui meandri dell’Ade, dove i minotauri sono il terrore della morte e dell’eterno castigo riservato al peccatore, servono altri viatici. Le sette orfiche rilasciavano agli adepti mappe dettagliate, laminette d’oro con incise le tappe salvifiche. Enea non si avventura nell’oltremondo senza il passaporto del ramo d’oro. La funzione di pellegrinaggio simbolico spiegherebbe il rifiorire del labirinto, grafico di salvazione, nella stagione delle cattedrali gotiche. La Francia è l’eden di questi itinerari penitenziali. Tra i più sontuosi, il chemin de Jhèrusalem tappezza in pietre azzurre e bianche, per 250 metri di circonvoluzioni, il pavimento della cattedrale di Chartres. Sostituto economico del tragitto alla città del Santo Sepolcro, il pio ghirigoro garantiva al fedele un’esperienza simbolica di redenzione.
Il fascino del labirinto è racchiuso anche nella sua vitalità di segno che si moltiplica nello spazio e nel tempo. Non c’è cultura che lo ignori. La sua permeabilità rischiosa ne fa una barriera per gli spiriti nocivi, tenendoli alla larga: steso in forma di acciottolato o di viluppo vegetale intorno alle abitazioni, ne trattiene e difende la positività intima di geloso rifugio. La sua energia liberatoria si dispiega nel gioco, che sia «dell’oca», o «del mondo» o «della campana», provvisori schemi dedalei che hanno conosciuto il gioioso saltellare infantile sotto ogni cielo. Secondo Jacques Attali, i nostri giorni celebrano, trionfale, il ritorno del labirinto, che si manifesta nell’impero delle reti, metropolitane, telematiche, informatiche, genetici, nelle spirali del DNA. I nuovi Minosse, i signori della politica e della finanza, devono garantirsi i servigi dei moderni Dedali, artefici di griglie. Più che nel brancolare del linguista o dell’archeologo, il mistero del dedalo freme nell’intuizione del poeta: il vero labirinto è senza schemi, senza muraglie. Si chiama universo.
«Il Giornale» del 7 luglio 2007
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