La visione tecnica che domina le società democratiche occidentali pretende di dire l’ultima parola sulle origini e le ragioni della vita. Nel discorso per la Festa del Redentore il Patriarca di Venezia mette in luce i punti di forza della religione e della filosofia nella ricerca, anche oggi, del senso dell’esistenza
Di Angelo Scola
Fino a ieri l’ipoteca della fede sembrava complicare il lavoro agli scienziati che studiavano la mente e la coscienza. Oggi è diventato chiaro a molti che la razionalità ha forme molteplici che non sono riducibili unicamente ai paradigmi della scienza, ma trovano nello «spirito» un sostegno decisivo per la comprensione dell’umano e della realtà. Non tutto si può spiegare meccanicamente con la biochimica del cervello
I cultori delle neuroscienze convinti che la comprensione del cervello rappresenti la svolta epocale più radicale (una rivoluzione più grande di quelle copernicana, darwiniana e freudiana) affermano a chiare lettere non solo che la nozione di vita è assai complessa, ma anche che vita è un termine troppo generico ed applicabile ad un insieme di processi. A tal punto che lo spirito di vita e la vita sarebbero concetti «intorno a cui gli scienziati hanno cessato da tempo di interrogarsi» (V.S. Rachamandran, Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, p. 98).
La fede cristiana, non complica ulteriormente le cose pretendendo che, per descrivere compiutamente la vita umana, si debba parlare non solo di mente e di cervello, ma anche di spirito (anima) e per di più di spirito individuale intimamente legato ad una carne destinata a risorgere? Rispondere a queste e simili domande in termini il più possibile adeguati è diventata una questione stantis vel cadentis per la fede cristiana.
Accogliere la sfida contenuta in questa provocazione è diventata ancor più una questione di vita e di morte per l'etica da quando William Safire ha coniato il termine «neuroetica» per indicare quell'insieme universale di risposte biologiche, connaturate al nostro cervello, da dare ai dilemmi di natura etica.
È decisamente positivo il fatto che siamo usciti dall'epoca in cui le scienze vietavano di «porre la domanda delle domande». Esse stesse non temono ormai di parlare, in qualche modo, di verità. La tecnoscienza, che non esclude di poter fornire spiegazioni per tutto il processo evolutivo, macro e micro - dal Big-Bang fino all'insorgere della prima cellula di vivente - sembra voler farsi carico di quelli che una volta erano i contenuti dell'etica filosofica e della religio. Taluni cultori delle neuroscienze affermano addirittura che «il nostro cervello vuole credere» (M.S. Gazzaniga, La mente etica, Codice edizioni, p. XVII) e quindi si apre uno spazio per una religiosità riconosciuta come fenomeno di una qualche rilevanza sociale. Essi dicono: pur sapendo che «di fronte ad un conflitto morale reagiamo di fatto in modi molto simili guidati da reti neurali o da sistemi di rinforzo comuni al nostro cervello» (ibid., 158) non si può evitare di confrontarsi col fatto che, almeno fino ad oggi, le persone, quotidianamente, vivono e muoiono in nome delle loro credenze religiose. Ci dividono le nostre teorie religiose e morali, ma la "mente etica" ci unirà e ci salverà!
La concezione tecnoscientifica della vita umana e della sua storia è divenuta assai rilevante nelle democrazie avanzate soprattutto dell'Occidente. Se la democrazia plurale si costruisce autonomamente solo su procedure, è però la tecnoscienza (non più le religioni e le filosofie) a volerci dire che cos'è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere il fenomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipendente dal fatto che l'Occidente sta imponendo a tutto il mondo una concezione della felicità come puro prodotto progressivo della tecnoscienza. In questa visione delle cose non v'è più posto per l'anima, la risurrezione della carne, la vita eterna.
Ci si può anzitutto porre una domanda. Una simile visione della realtà è per l'autentico profitto della stessa tecnoscienza?
Conviene anzitutto rilevare che la tecnoscienza fa leva su una visione del reale che consente la progressiva scoperta solo di ulteriori stati di cose, ma non quella di ulteriorità di senso rispetto a quello definito dall'impresa scientifica. Riaffiora qui obiettivamente il rischio, che ogni autentica impresa scientifica deve invece scongiurare, di una nuova forma di riduzionismo (non di corretta "riduzione") che finisce per produrre inedite, potenti varianti di scientismo, che in ogni sua forma, da quelle più rozze a quelle più raffinate, è fondato su una triplice ingiustificata identificazione: «ciò che è» è «ciò che è conoscibile»; «ciò che è conoscibile» è «ciò che è conoscibile s cientificamente»; «ciò che è conoscibile scientificamente» è «ciò che è conoscibile mediante la scienza empirica». Così che, in definitiva, solo le scienze, e in specie quelle empirico-sperimentali, ci danno la conoscenza di ciò che è.
Non la scienza astrattamente intesa, ma l'uomo di scienza non può però eludere la domanda: l'orizzonte della ragione umana oltrepassa o no l'orizzonte della ragione scientifica?
Esistono almeno due buoni motivi per rispondere positivamente. Anzitutto i processi umani, gli stati e le operazioni della mente quali intenzionalità, comportamento, cognizione, libero arbitrio non sono come tali oggetto possibile dell'indagine scientifca, che al più può analizzare solo le loro condizioni fisiche o psichiche. Non mancano conferme a questa affermazione da parte dei più recenti studi legati alle scienze cognitive. Inoltre vi è il problema dell'organismo che tiene in collegamento tali strutture, del perché esse svolgano la loro funzione, del come si siano formate. Emerge con forza già a questo livello la questione dell'Io (Self), che dovrà nella sua complessa articolazione (continuità, unità, corporeità, azione volontaria) trovare spiegazione. E i cultori delle neuroscienze sono ben lungi dall'aver dimostrato che questa sia correlabile con una qualche funzione neuronale od area cerebrale.
In secondo luogo esistono forme di razionalità differenti dalla razionalità scientifica. Il logos umano, infatti, pur essendo uno, si esercita ed è produttivo secondo plurime forme teoriche, pratiche ed espressive - come già affermava Aristotele - che oggi possiamo identifcare in almeno cinque forme differenziate ed irriducibili di razionalità (cfr. i diversi gradi del sapere di Maritain e le diverse forme della conoscenza secondo Lonergan): teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica). Per questo Benedetto XVI molto opportunamente non cessa di invocare il rispetto dell'"ampiezza" della ragione, articolata nella pluralità delle sue capacità e funzioni, e quindi né arbitraria, né indifferenziata pena la caduta nella frammentazione del senso.
Anche quando le neuroscienze fossero in grado di descrivere il come gli stati neuronali del cervello si colleghino a tutti i fenomeni che, per intenderci, chiameremo spirituali, resterebbe intatta la questione del che cosa essi siano in realtà. Anche ammesso un rapporto di causalità tra stati neuronali ed emozioni, operazioni ed opzioni spirituali, tale confronto non potrebbe mai escludere, ma piuttosto suggerire l'esistenza di un principio che muove l'Io (Self) nella sua relazione profonda verso il Sé e verso l'altro. Come escludere che la biochimica del cervello descriva solo una dimensione del complesso comportamento spirituale di un essere che vive dell'insopprimibile unità duale di anima e di corpo?
Se la biochimica del cervello risponderà alla domanda su che cosa sono il libero arbitrio, l'arte, su chi siamo noi, allora la grande questione della natura dell'Io e della vita - e alla fine dell'anima - troveranno una spiegazione in cui il problema della natura dell'io non svanirà affatto, ma solo sarà risolto da una pura lettura tecnoscientifica, che comunque dovrà mostrare la sua sufficienza. Oppure la biochimica del cervello, come personalmente ritengo occorra concludere, potrà solo dire sempre meglio il come del suo nesso con la mente, lasciando spazio ad altri procedimenti razionali per indagare il che cosa della mente stessa oltre che del bios.
Questo che cosa, da quando l'uomo esiste, non è mai stato messo da parte semplicemente perché irresistibilmente l'uomo, a partire dalla domanda che lo costituisce, «alla fine chi mi assicura definitivamente?», sempre lo ripropone. È la sua dimensione spirituale, l'anima e il destino immortale di tutta la persona, che impone all'uomo la domanda sulla natura della mente e attraverso di essa sulla sua natura tout- court.
La fede cristiana, non complica ulteriormente le cose pretendendo che, per descrivere compiutamente la vita umana, si debba parlare non solo di mente e di cervello, ma anche di spirito (anima) e per di più di spirito individuale intimamente legato ad una carne destinata a risorgere? Rispondere a queste e simili domande in termini il più possibile adeguati è diventata una questione stantis vel cadentis per la fede cristiana.
Accogliere la sfida contenuta in questa provocazione è diventata ancor più una questione di vita e di morte per l'etica da quando William Safire ha coniato il termine «neuroetica» per indicare quell'insieme universale di risposte biologiche, connaturate al nostro cervello, da dare ai dilemmi di natura etica.
È decisamente positivo il fatto che siamo usciti dall'epoca in cui le scienze vietavano di «porre la domanda delle domande». Esse stesse non temono ormai di parlare, in qualche modo, di verità. La tecnoscienza, che non esclude di poter fornire spiegazioni per tutto il processo evolutivo, macro e micro - dal Big-Bang fino all'insorgere della prima cellula di vivente - sembra voler farsi carico di quelli che una volta erano i contenuti dell'etica filosofica e della religio. Taluni cultori delle neuroscienze affermano addirittura che «il nostro cervello vuole credere» (M.S. Gazzaniga, La mente etica, Codice edizioni, p. XVII) e quindi si apre uno spazio per una religiosità riconosciuta come fenomeno di una qualche rilevanza sociale. Essi dicono: pur sapendo che «di fronte ad un conflitto morale reagiamo di fatto in modi molto simili guidati da reti neurali o da sistemi di rinforzo comuni al nostro cervello» (ibid., 158) non si può evitare di confrontarsi col fatto che, almeno fino ad oggi, le persone, quotidianamente, vivono e muoiono in nome delle loro credenze religiose. Ci dividono le nostre teorie religiose e morali, ma la "mente etica" ci unirà e ci salverà!
La concezione tecnoscientifica della vita umana e della sua storia è divenuta assai rilevante nelle democrazie avanzate soprattutto dell'Occidente. Se la democrazia plurale si costruisce autonomamente solo su procedure, è però la tecnoscienza (non più le religioni e le filosofie) a volerci dire che cos'è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere il fenomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipendente dal fatto che l'Occidente sta imponendo a tutto il mondo una concezione della felicità come puro prodotto progressivo della tecnoscienza. In questa visione delle cose non v'è più posto per l'anima, la risurrezione della carne, la vita eterna.
Ci si può anzitutto porre una domanda. Una simile visione della realtà è per l'autentico profitto della stessa tecnoscienza?
Conviene anzitutto rilevare che la tecnoscienza fa leva su una visione del reale che consente la progressiva scoperta solo di ulteriori stati di cose, ma non quella di ulteriorità di senso rispetto a quello definito dall'impresa scientifica. Riaffiora qui obiettivamente il rischio, che ogni autentica impresa scientifica deve invece scongiurare, di una nuova forma di riduzionismo (non di corretta "riduzione") che finisce per produrre inedite, potenti varianti di scientismo, che in ogni sua forma, da quelle più rozze a quelle più raffinate, è fondato su una triplice ingiustificata identificazione: «ciò che è» è «ciò che è conoscibile»; «ciò che è conoscibile» è «ciò che è conoscibile s cientificamente»; «ciò che è conoscibile scientificamente» è «ciò che è conoscibile mediante la scienza empirica». Così che, in definitiva, solo le scienze, e in specie quelle empirico-sperimentali, ci danno la conoscenza di ciò che è.
Non la scienza astrattamente intesa, ma l'uomo di scienza non può però eludere la domanda: l'orizzonte della ragione umana oltrepassa o no l'orizzonte della ragione scientifica?
Esistono almeno due buoni motivi per rispondere positivamente. Anzitutto i processi umani, gli stati e le operazioni della mente quali intenzionalità, comportamento, cognizione, libero arbitrio non sono come tali oggetto possibile dell'indagine scientifca, che al più può analizzare solo le loro condizioni fisiche o psichiche. Non mancano conferme a questa affermazione da parte dei più recenti studi legati alle scienze cognitive. Inoltre vi è il problema dell'organismo che tiene in collegamento tali strutture, del perché esse svolgano la loro funzione, del come si siano formate. Emerge con forza già a questo livello la questione dell'Io (Self), che dovrà nella sua complessa articolazione (continuità, unità, corporeità, azione volontaria) trovare spiegazione. E i cultori delle neuroscienze sono ben lungi dall'aver dimostrato che questa sia correlabile con una qualche funzione neuronale od area cerebrale.
In secondo luogo esistono forme di razionalità differenti dalla razionalità scientifica. Il logos umano, infatti, pur essendo uno, si esercita ed è produttivo secondo plurime forme teoriche, pratiche ed espressive - come già affermava Aristotele - che oggi possiamo identifcare in almeno cinque forme differenziate ed irriducibili di razionalità (cfr. i diversi gradi del sapere di Maritain e le diverse forme della conoscenza secondo Lonergan): teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica). Per questo Benedetto XVI molto opportunamente non cessa di invocare il rispetto dell'"ampiezza" della ragione, articolata nella pluralità delle sue capacità e funzioni, e quindi né arbitraria, né indifferenziata pena la caduta nella frammentazione del senso.
Anche quando le neuroscienze fossero in grado di descrivere il come gli stati neuronali del cervello si colleghino a tutti i fenomeni che, per intenderci, chiameremo spirituali, resterebbe intatta la questione del che cosa essi siano in realtà. Anche ammesso un rapporto di causalità tra stati neuronali ed emozioni, operazioni ed opzioni spirituali, tale confronto non potrebbe mai escludere, ma piuttosto suggerire l'esistenza di un principio che muove l'Io (Self) nella sua relazione profonda verso il Sé e verso l'altro. Come escludere che la biochimica del cervello descriva solo una dimensione del complesso comportamento spirituale di un essere che vive dell'insopprimibile unità duale di anima e di corpo?
Se la biochimica del cervello risponderà alla domanda su che cosa sono il libero arbitrio, l'arte, su chi siamo noi, allora la grande questione della natura dell'Io e della vita - e alla fine dell'anima - troveranno una spiegazione in cui il problema della natura dell'io non svanirà affatto, ma solo sarà risolto da una pura lettura tecnoscientifica, che comunque dovrà mostrare la sua sufficienza. Oppure la biochimica del cervello, come personalmente ritengo occorra concludere, potrà solo dire sempre meglio il come del suo nesso con la mente, lasciando spazio ad altri procedimenti razionali per indagare il che cosa della mente stessa oltre che del bios.
Questo che cosa, da quando l'uomo esiste, non è mai stato messo da parte semplicemente perché irresistibilmente l'uomo, a partire dalla domanda che lo costituisce, «alla fine chi mi assicura definitivamente?», sempre lo ripropone. È la sua dimensione spirituale, l'anima e il destino immortale di tutta la persona, che impone all'uomo la domanda sulla natura della mente e attraverso di essa sulla sua natura tout- court.
«Avvenire» del 15 luglio 2007
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