Recenti ricerche mettono in dubbio la bontà del living will
di Renzo Puccetti
Il dibattito sul tema delle cure palliative e sull’introduzione del testamento biologico sembra purtroppo caricato di un’esasperazione ideologica indifferente alle conoscenze già a disposizione della letteratura medico-scientifica. A Pisa, proprio per discutere dei reali bisogni dei pazienti colpiti da gravi patologie croniche invalidanti, o in fase avanzata di malattia, si terrà un convegno che vedrà il contributo degli esperti nelle varie aree afferenti all’assistenza di queste persone.
Ripensamento sull’esperienza del living will
Da tempo si è sviluppata un’ampia riflessione critica nei confronti del testamento biologico quale strumento per estendere la partecipazione dei pazienti nel processo decisionale. Sulla rivista del prestigioso istituto di bioetica statunitense Hastings Center è stata pubblicata un’ampia revisione dell’esperienza americana dal titolo eloquente: «Basta! Il fallimento dei living will» da cui è risultato che il testamento biologico è redatto da meno di un quinto delle persone, in oltre i due terzi dei casi è irreperibile, nove volte su dieci è scritto con un linguaggio così generico da renderne assai difficile l’interpretazione da parte dei sanitari.
Un tragico boomerang
Non si tratta di problemi di scarso peso; recentemente un chirurgo statunitense, il dottor Mirarchi, ha riferito un episodio emblematico di come compilare il testamento biologico possa trasformarsi in un rischio per la salute del paziente. Un pensionato ricoverato per infarto del miocardio mostrò il proprio testamento biologico, che i medici interpretarono come una direttiva di non rianimazione. Il paziente, a causa della riacutizzazione del processo infartuale, cominciò ad invocare aiuto, ma il medico che si accingeva a defibrillarlo con ottime possibilità di recupero fu fermato dall’infermiera che riferì del testamento biologico. Sottoscrivendo quel foglio il paziente aveva firmato la propria condanna. L’indicazione di una figura fiduciaria non sembra migliorare granché le cose: un fiduciario su tre dà indicazioni difformi da quelle espresse dal paziente.
Vizi della volontà al momento di redigere il documento
Uno studio pubblicato sulla rivista di geriatria Gerontology fa sorgere non pochi dubbi sulla reale autonomia di pensiero contenuta nelle dichiarazioni anticipate di trattamento; è emerso infatti che la volontà espressa nella direttiva anticipata risente dell’isolamento sociale e dell’eventuale presenza di depressione. I risultati di un altro recentissimo studio, condotto dagli psicologi universitari Laura Kressel e Gretchen Chapman, pongono ulteriori interrogativi circa la capacità del testamento biologico di esprimere la reale volontà delle persone. Semplici suggestioni, quali quelle evocate dalla lettura del testamento biologico di altre persone, sono risultate sufficientemente potenti da influenzare il contenuto delle proprie direttive anticipate; si tratta di un effetto di breve durata, ma in quanto tale capace di condizionare in maniera inappropriata scelte delicatissime.
Regresso anti-scientifico
Il quadro generale che se ne ricava sembra specificare l’idea che, per dirla con l’antropologo René Girard, la convinzione che i desideri siano spontanei ed individuali «è la più cara di tutte le illusioni». Questa nozione mitologica che non riconosce i condizionamenti della persona nel processo di formazione del testamento biologico, diventa ancora più devastante quando nega la depressione, la perdita di speranza, la sindrome da demoralizzazione, il ruolo giocato dal medico e dai familiari nel favorire la richiesta di eutanasia del paziente in fase terminale.
Mascherato da progresso, questo processo sembra nel suo complesso rappresentare un regresso anti-scientifico che teorizza l’eliminazione più o meno volontaria del portatore di una patologia e rinuncia alla sfida rappresentata dalla persona portatrice della stessa malattia. Elemento che dovrebbe indurre ad una saggia cautela il legislatore che volesse evitare di compiere operazioni di sicuro impatto mediatico, ma di assai dubbia utilità sociale.
Ripensamento sull’esperienza del living will
Da tempo si è sviluppata un’ampia riflessione critica nei confronti del testamento biologico quale strumento per estendere la partecipazione dei pazienti nel processo decisionale. Sulla rivista del prestigioso istituto di bioetica statunitense Hastings Center è stata pubblicata un’ampia revisione dell’esperienza americana dal titolo eloquente: «Basta! Il fallimento dei living will» da cui è risultato che il testamento biologico è redatto da meno di un quinto delle persone, in oltre i due terzi dei casi è irreperibile, nove volte su dieci è scritto con un linguaggio così generico da renderne assai difficile l’interpretazione da parte dei sanitari.
Un tragico boomerang
Non si tratta di problemi di scarso peso; recentemente un chirurgo statunitense, il dottor Mirarchi, ha riferito un episodio emblematico di come compilare il testamento biologico possa trasformarsi in un rischio per la salute del paziente. Un pensionato ricoverato per infarto del miocardio mostrò il proprio testamento biologico, che i medici interpretarono come una direttiva di non rianimazione. Il paziente, a causa della riacutizzazione del processo infartuale, cominciò ad invocare aiuto, ma il medico che si accingeva a defibrillarlo con ottime possibilità di recupero fu fermato dall’infermiera che riferì del testamento biologico. Sottoscrivendo quel foglio il paziente aveva firmato la propria condanna. L’indicazione di una figura fiduciaria non sembra migliorare granché le cose: un fiduciario su tre dà indicazioni difformi da quelle espresse dal paziente.
Vizi della volontà al momento di redigere il documento
Uno studio pubblicato sulla rivista di geriatria Gerontology fa sorgere non pochi dubbi sulla reale autonomia di pensiero contenuta nelle dichiarazioni anticipate di trattamento; è emerso infatti che la volontà espressa nella direttiva anticipata risente dell’isolamento sociale e dell’eventuale presenza di depressione. I risultati di un altro recentissimo studio, condotto dagli psicologi universitari Laura Kressel e Gretchen Chapman, pongono ulteriori interrogativi circa la capacità del testamento biologico di esprimere la reale volontà delle persone. Semplici suggestioni, quali quelle evocate dalla lettura del testamento biologico di altre persone, sono risultate sufficientemente potenti da influenzare il contenuto delle proprie direttive anticipate; si tratta di un effetto di breve durata, ma in quanto tale capace di condizionare in maniera inappropriata scelte delicatissime.
Regresso anti-scientifico
Il quadro generale che se ne ricava sembra specificare l’idea che, per dirla con l’antropologo René Girard, la convinzione che i desideri siano spontanei ed individuali «è la più cara di tutte le illusioni». Questa nozione mitologica che non riconosce i condizionamenti della persona nel processo di formazione del testamento biologico, diventa ancora più devastante quando nega la depressione, la perdita di speranza, la sindrome da demoralizzazione, il ruolo giocato dal medico e dai familiari nel favorire la richiesta di eutanasia del paziente in fase terminale.
Mascherato da progresso, questo processo sembra nel suo complesso rappresentare un regresso anti-scientifico che teorizza l’eliminazione più o meno volontaria del portatore di una patologia e rinuncia alla sfida rappresentata dalla persona portatrice della stessa malattia. Elemento che dovrebbe indurre ad una saggia cautela il legislatore che volesse evitare di compiere operazioni di sicuro impatto mediatico, ma di assai dubbia utilità sociale.
«Avvenire» del 14 giugno 2007
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