Spopolano i libri sugli anni di piombo. I figli dei caduti divisi sui carnefici
di Luigi Ferrarella
Rossa: «Perdono chi ha saldato il conto». Casalegno: «Si resta sempre assassini»
In libreria è l’anno delle Vittime del terrorismo: dimenticate, anestetizzate, a volte calpestate nella superficialità (denunciata in marzo anche da un appello del capo dello Stato) della presenza di ex terroristi in talk-show tv e in contesti pubblici, persino irrise dai cavilli con i quali la burocrazia dello Stato previdenziale cerca con una mano di non pagare le vittime che nel 2004 proprio lo Stato con l’altra mano ha in teoria solennemente dichiarato di voler aiutare tramite un’apposita legge. E infine, però, vittime appunto riscattate da questo improvviso e convergente fiorire di titoli sui banchi delle librerie. Dal Spingendo la notte più in là di Mario Calabresi (il figlio del commissario di polizia Luigi assassinato nel 1972) al Guido Rossa, mio padre di Sabina Rossa (la figlia del sindacalista ucciso nel 1979), dagli Eroi come noi raccontati da Giovanni Minoli fino a I silenzi degli innocenti raccolti da Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, dalla denuncia de Il Paese della vergogna di Daniele Biacchessi alla critica letteraria quale chiave di lettura di Una tragedia negata di Demetrio Paolin, i familiari dei morti e i feriti sopravvissuti al terrorismo rosso e nero hanno recuperato una inedita centralità nelle valutazioni su quegli anni, a lungo invece ricalcate più che altro (se non soltanto) sulla pur comprensibile esigenza di tentare di razionalizzare la matrice del delirio di piombo: di comprendere, talora concentrandosi troppo e solo sui terroristi, ciò che spingeva giovani quasi sempre di estrazione borghese, talvolta di buoni studi, non di rado di formazione cattolica, a sparare prima del giornale radio del mattino alla proletaria guardia carceraria, spersonalizzata al punto da non vedervi più un uomo ma solo un simbolo, un «servo delle multinazionali». Anche se magari il suo faticato stipendio era così modesto da rendergli problematico persino l’acquisto di un Coca Cola di troppo. Soprattutto di questi «militi ignoti della società civile», caduti «in una guerra che essi stessi neppure sapevano di dover combattere», intende trattare il libro Terrorismo. L’altra storia (prefazione di Vittorio Feltri, Aliberti editore, 382 pagine, 16,90 euro), nel quale Francesco Specchia e Raffaello Canteri raccolgono «esclusivamente le testimonianze di chi ha subìto il macabro rituale della violenza collettiva»: le parole dei parenti di 460 morti e di 4500 feriti in 650 fatti criminosi e 5 mila attentati dal 1970, «un lavoro di ricerca durato 7 anni» e reso possibile, dichiarano gli autori, dalla collaborazione di Gianni Pintus a Torino, Diego Pistacchi a Genova, Gianluigi Nuzzi a Milano, Gian Marco Chiocci a Roma, e Carmine Spadafora per il Sud Italia. Il complessivo ventaglio di punti di vista editoriali di questa stagione, dunque, finisce per polarizzarsi tra due estremi, che trasversalmente attraversano i campi delle vittime e dei carnefici. «Sono assolutamente convinta che gli ex brigatisti che hanno saldato il conto con lo Stato non possano essere considerati reati ma persone, di cui si è disposti a guardare il cambiamento», apre Sabina Rossa; e l’ex terrorista Sergio Segio raccoglie, sostenendo che «contrapporre all’ergastolo del dolore, da noi inflitto ai parenti degli uccisi, l’ergastolo della morte civile, nei nostri confronti, mi pare un frutto sterile e avvelenato». Ma altri familiari di vittime dei terroristi, al pari (pur per ragioni abissalmente differenti) proprio di altri brigatisti, elaborano diversamente il loro vissuto. Come Andrea Casalegno, che non desidera avere contatti con chi gli uccise il padre Carlo (vicedirettore de La Stampa) perché «si può essere ex brigatisti, ma non si può essere ex assassini»; e come proprio l’assassino di suo padre, Raffaele Fiore, che (nel libro-intervista L’ultimo brigatista di Aldo Grandi) specularmente spiega di non aver «mai voluto avere rapporti con i familiari delle vittime perché lo ritengo inutile e ipocrita», in quanto «con coloro che abbiamo ammazzato non avevamo alcun tipo di rapporto diretto. Il mio, il nostro, era un legame politico: per noi erano dei simboli, degli obiettivi politici, non delle persone». Se mai, in questa tensione tra vittime (per sempre) e terroristi (non sempre ex) che il troppo poco tempo trascorso ancora non può sciogliere, toccherebbe proprio agli estranei a tutto questo «dolore degli altri» scongiurare l’ennesimo sfregio: e cioè il travisamento di un sacrosanto riconoscimento di una colossale amnesia collettiva in sfruttamento ad altri fini della «macchina mitologica» della vittima. Quasi che (come osservato in un più generale contesto da Daniele Giglioli a proposito de La tirannia della penitenza di Pascal Bruckner) «l’identificazione con la vittima sia diventata il principale generatore di identità nella coscienza contemporanea, l’unico dispositivo discorsivo in grado di dar voce non tanto a un bisogno di avere (diritti, giustizia), quanto piuttosto a un desiderio di essere». Una tentazione che a chi ha davvero sofferto infliggerebbe l’ultimo insulto, «il perverso risultato di istituire le vittime a paradossale e blasfemo oggetto di desiderio».
«Corriere della sera» del 26 luglio 2007
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