21 gennaio 2022

Nei film di animazione ci sono troppi balletti?

La tendenza a far esibire sempre di più i personaggi in coreografie sembra studiata per i social media e gli adattamenti teatrali: come dimostra Encanto, l'ultimo film Disney. Tutto questo però va a scapito della qualità
di Jason Kehe
Encanto, l'ultimo musical animato di Disney, sarebbe stato un film perfetto, se solo non avesse subito due distinte forme di pressione. La prima, è la pressione di dover avere il finale perfetto. Non un lieto fine, intendiamoci: il lieto fine è accettabile. Il finale perfetto, che accettabile non lo è mai, è quello in cui ogni tipo di delusione, ingiustizia o rimpianto è superato come (o letteralmente) per magia all'ultimo secondo disponibile, privando il pubblico dell'opportunità di accettare con serenità il meraviglioso struggimento a cui si erano preparati per tutto il film. Purtroppo, la pressione del finale perfetto è così totalizzante nell'animazione americana che lamentarsene ora, nel ventunesimo secolo, sembra un esercizio inutile oltre che assurdo. Personalmente, penso sia molto più sofisticato criticare la seconda forma di pressione, molto meno dibattuta, con cui si trova a dover fare i conti un povero film come Encanto, la storia di una famiglia colombiana che perde i suoi poteri magici: la pressione di dover far ballare i suoi personaggi.
Anche meno Esattamente, ballare. Muovere il corpo a tempo di musica, spesso, nel caso dei protagonisti del film, per nessuna altra ragione se non che sono fisicamente in grado di farlo. In La pressione sale, il brano più accattivante di Encanto, una delle sorelle Madrigal, Luisa, canta della pressione - un tema ricorrente - di essere forte per tutta la famiglia. Luisa si riferisce sia alla forza emotiva che fisica, dal momento che il suo superpotere è la forza sovrumana (ma anche perché Lin-Manuel Miranda, che ha scritto la versione originale della canzone, non è un autore particolarmente sottile). "E sale la pressione e non conosce stop, woah - canta Luisa -. Senti questo tic, tic, tic? Presto esploderò, woah". Per buona parte dalla canzone, questa donna adulta decisamente ben piazzata si esibisce in movenze hip hop come una ragazzina smaniosa davanti allo specchio della sua cameretta. "Sembra un balletto di TikTok", mi ha detto un'amica durante la visione. Più tardi quella stessa sera, mi ha mandato un TikTok di un adolescente in carne e ossa che eseguiva gli stessi identici passi.
Una strategia calcolata Ovviamente è probabilmente l'esatto scenario che Disney sperava si verificasse nelle fasi di scrittura della scena: dare alla grande signora triste dei passi accattivanti, mettere sullo sfondo un tormentone con un linguaggio da lettino di uno psicoanalista, e mettersi comodi ad aspettare la pubblicità gratuita. Una mossa di pessimo gusto in qualsiasi circostanza, che diventa però quasi disgustosa nel contesto dell'intrattenimento animato. Tra principali forme d'arte, la danza è l'unica che richiede forza fisica. Tutto il suo fascino, infatti, si basa sulle contorsioni del corpo umano, il sudore, il rischio e il trionfo: Cos'è quella mossa? Come fa a piegarsi così? Perderà il ritmo? I personaggi dei musical dal vivo ballano di continuo, ed è giusto così: fa parte dei manierismi della narrazione. Anche i cartoni animati generati al computer sono liberi di ballare, ma quando lo fanno, emerge la consapevolezza esasperata dei loro movimenti affettati e della motivazione, diegetica o meno, che li spinge a ballare, tanto più quando quei movimenti sembrano essere al servizio di una strategia di social media. I casqué e le giravolte cominciano a sembrare pixel iperprogrammati e inquietanti che eseguono plié e piroette con una precisione perfetta e perturbante. Nella sua forma peggiore, è un insulto alla fisicità della danza. Quindi è meno divertente da guardare. Anzi, gran parte delle volte è semplicemente imbarazzante. Quando Luisa dal niente si mette a ballare, a metà di un film in cui altrimenti non dimostra alcun interesse attivo nelle arti performative, oppure quando un'altra delle sorelle Madrigal canta e si dimena sulle note dell'altro successo formato TikTok di Encanto, Non si nomina Bruno, si percepisce non solo la speranza della Disney che gli spettatori facciano loro queste movenze, ma anche la rinuncia da parte della società, in atto ormai da molti anni, all'animazione come genere a sé. A un film come Encanto non è più concesso di esistere come prodotto isolato, ma deve invece strizzare l'occhio a ogni tipo di possibile crossover, dagli spettacoli sul ghiaccio e le giostre nei parchi a tema fino, in modo ancora più spudorato, ai musical di Broadway.
Lo spartiacque E la 'colpa' è di Frozen. Prima della sua uscita nelle sale nel 2013, la differenza tra un musical di Broadway e un musical Disney era quantomeno oggetto di dibattito. Certo, classici come Il Re Leone, La Bella e la Bestia e La Sirenetta hanno tutti finito con l'essere adattati per Broadway, più o meno in questo ordine decrescente di qualità, ma nessuno di questi film era stato realizzato nella speranza di essere portato a teatro. Innanzitutto, i balletti erano pochissimi, oltre che casuali e goffi. Le parti cantate, poi, erano più contenute e meno appariscenti. Tutto questo è cambiato il giorno in cui Idina Menzel, la cantante che ha prestato la sua impressionante voce ai musical Rent e Wicked, è stata scelta per Frozen (nella versione italiana la parte è stata affidata a Serena Autieri), facendo entrare Disney nell'era della spettacolarizzazione delle canzoni. Da allora, film come Oceania, Coco, Frozen II, e ora Encanto sono tutti sembrati meno pellicole di animazione, quanto piuttosto produzioni teatrali, pronte per essere adattate da un momento all'altro per il palcoscenico. Nel 2018, Frozen ha debuttato a Broadway. Probabilmente lo spettacolo attira spettatori nuovi e più giovani verso un settore in difficoltà. Ma è una ragione sufficiente per giustificare l'infinito circolo vizioso di progetti che non sono pensati per nessuna piattaforma specifica e che uniformano e rendono più superficiale il nostro intrattenimento, frustrando ogni speranza di espressione artistica? Probabilmente no. Se ogni cosa viene fatta per essere trasformata in altro, allora niente può eccellere nell'essere se stesso: la storia dei nostri tempi. Encanto aveva un potenziale enorme. Da qualche parte al suo interno c'è un film che è un piccolo miracolo di sensibilità sul tema del retaggio culturale e del rinnovamento, che viene tristemente fagocitato dalle pressioni aziendali per trasformarlo in qualcosa più, e di meno. Per Disney, oggi l'animazione è un mezzo e non un fine, che comincia con tutti quei traumatici balletti fuori tempo e scollati dalla realtà, propinati a un pubblico confuso e impressionabile. Niente è più al sicuro, nemmeno i finali. Pensateci un attimo: se i personaggi animati non fossero costretti ad agitare il loro corpo digitale al ritmo delle canzoni, ci sarebbe meno pressione per chiudere con il finale perfetto. Se avessero sentimenti reali, i personaggi non avrebbero nulla per cui ballare.
«Wired» del 20 gennaio 2022

10 gennaio 2022

Una scuola senza talento

di Alessandro D’Avenia
La scuola purtroppo è al centro del dibattito solo per l’emergenza virale, mai per quella vitale che la ferisce da decenni. Voglio allora fermarmi sulle righe ricevute di recente da un 13enne: «Ho visto un video in cui parla del talento. Mi ha fatto riflettere, avevo un’altra idea del talento, pensavo fosse legato al successo e alla fama. La sua spiegazione mi ha dato serenità». Le narrazioni offerte ai ragazzi determinano la loro esperienza della vita. Questo ragazzo è angosciato dalla parola talento: parola vitale divenuta mortifera. Come è accaduto? Il talento (antica unità di peso molto grande: 34 kg d’argento, cioè un’intera vita di lavoro di un operaio) è proverbiale grazie alla parabola del vangelo di Matteo (25), in cui Cristo descrive il regno dei cieli, cioè il mondo come Dio lo offre agli uomini. La storia narra di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Riceviamo la vita in dote e siamo realmente liberi perché a noi è lasciata l’iniziativa «creativa»: per cosa? Il testo dice che i talenti non sono «le capacità», ma ciò che viene dato a ciascuno «secondo la sua capacità». Se confondiamo i talenti con «le capacità», la vita diventa un’ingiusta e spossante competizione, tipica della nostra società della performance che infatti genera soggetti stanchi, se non re-/de-pressi. Nella parabola si narra ben altro: che cosa? Il talento è la vita che ciascuno può ricevere in base «alla» capacità, cioè quanto può contenere un recipiente. I bicchieri hanno capacità diverse, ma non sono in competizione: ciascuno è pieno se riceve il liquido di cui è capace. A differenza dei bicchieri però, la «capacità» umana non è «cristallizzata»: si può espandere. In italiano infatti è tradotto con «capacità» la parola greca dynamis (energia), da cui dinamismo o dinamite. Si potrebbe tradurre: «A ciascuno diede talenti secondo la sua energia». Riceviamo tanta vita quanta ne possiamo e vogliamo ricevere di volta in volta: la vita ci viene incontro nella misura in cui le andiamo incontro. Questa capacità espansiva si chiama desiderio, «a ciascuno la vita è data secondo il suo desiderio»: talentuoso non significa quindi «capace» ma «vivace». Agostino lo spiega così: «Non potendo ora vedere il paradiso, vostro impegno sia desiderarlo. La vita è tutta desiderio. Ma se una cosa è oggetto di desiderio, ancora non la si vede, e tuttavia tu, attraverso il desiderio, ti dilati. Se devi riempire un sacco e sai che ciò che ti sarà dato è molto grande, ti preoccupi di allargare il sacco più che puoi. Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e lo rende più capace. Viviamo dunque di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. La vita è esercitarsi nel desiderio». Esercitarsi nel desiderio, cioè ampliare la capacità di ricevere vita, è la definizione migliore di felicità. Al ritorno dal viaggio infatti l’uomo chiede «conto dei talenti», cioè «racconto della vita»: come ti è andata? Due su tre hanno raddoppiato, la vita è cresciuta in e attorno a loro, è diventata eterna, cioè viva, e infatti la gioia provata è confermata e moltiplicata: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla mia gioia». Colui che invece ha sotterrato il talento ha sotterrato la vita e si giustifica così: «Per paura lo andai a nascondere sotterra». Ha rinunciato a «vivere la vita» e si è «lasciato vivere»: seppellendo il talento ha seppellito se stesso. Se un solo talento è una quantità tale da esser sinonimo del lavoro di una vita intera, a quell’uomo è stato chiesto ciò che era alla sua portata per essere felice. Ma la paura e la pigrizia sono state la sua tomba in vita. Nell’italiano delle origini talento significava non a caso desiderio: vivere in un talento è per Dante, nella famosa poesia per i suoi amici, aver gli stessi desideri. Dal 1700 in poi la parola si va invece identificando con «capacità», da vita in-determinata (desiderio) a pre-determinata (destino). Un 13enne, immerso nella cultura della prestazione e dell’autoaffermazione, è giustamente angosciato dalla legge del più forte o più fortunato. Proteggere la salute dei ragazzi oggi è farli esercitare non nel «potere» (domina il mondo) ma nel desiderio, nel «poter essere» (amplia il mondo). L’educazione serve a trovare il desiderio che anima ciascuno, per essere «vivo». Aiutarli a scoprire come ricevere vita (i talenti) è il segreto della gioia: domandare «che talenti hai?» non è chiedere «che capacità hai?» (da cui il pilatesco ritornello: «ha le capacità ma non si applica»), ma «quanta vita puoi/vuoi creare?». E ciò dipende da una domanda più radicale: «Qual è il tuo desiderio? Che cosa puoi essere e fare solo tu?». Un’educazione che con-forta (dà forza a) questa «energia» (dynamis), dà vita alla vita, ma per far questo serve un percorso serio che negli anni aiuti i ragazzi a distinguere «i desideri» indotti da condizionamenti esterni, mode e ferite della vita, che generano dipendenza, e «il desiderio» autentico, che invece libera e moltiplica la vita. Noi educatori conosciamo il nostro desiderio? E il loro? Li aiutiamo a scoprirlo ed esercitarlo, perché noi per primi lo stiamo facendo? O li addestriamo alla logica sfinente della prestazione e quindi del potere?
«Corriere della sera» del 10 gennaio 2022