L’Italia prigioniera del suo passato
di Ernesto Galli Della Loggia
«Non siamo mai stati fascisti» (1945), «non siamo mai stati comunisti» (1989): sono queste due negazioni, collocate all’inizio della nuova storia del Paese e in un tornante essenziale del suo successivo svolgimento, che danno un’impronta decisiva alla democrazia italiana, definiscono e consacrano un tratto del suo Dna. E sono proprio queste due negazioni diciamo così fondative che spiegano quello che di giorno in giorno sta diventando il dato più evidente e negativo del nostro sistema politico: il suo sostanziale immobilismo, la sua incapacità di decidere, di attuare svolte reali, di imboccare con determinazione vie nuove con uomini nuovi. E di conseguenza la sua irresistibile propensione ad acquistare un carattere castale. 1945, 1989: voglio forse dire che fascismo e comunismo sono stati la stessa cosa? Neanche per sogno. Voglio dire, invece, che moltissimo in comune ha avuto il modo in cui la fine di entrambi è stata metabolizzata dal Paese (del quale, non dimentichiamolo, i loro seguaci erano tanta parte): in un caso e nell’altro all’insegna, per l’appunto, di una negazione che era una rimozione. Ogni volta, infatti, ci si è liberati del passato sgradito dicendo di non avervi in realtà avuto davvero parte, e che in ciò che di esso vi era stato di negativo non si era mai creduto. Nell’obbligatorio antifascismo del dopoguerra la democrazia italiana è nata rifiutandosi di guardare indietro alla propria storia e a quella del Paese, e di farsi carico di entrambe con un adeguato esame di coscienza. Quaranta anni dopo, il fenomeno si è ripetuto e rafforzato: nell’obbligatorio anticomunismo del dopo «muro di Berlino» la sinistra (divenuta nel frattempo il vero crogiuolo delle nuove élites del Paese) è stata spinta a rimuovere il passato, negandolo nelle sue fattezze reali e facendo quasi come se esso non fosse mai esistito. L’immobilismo attuale della politica italiana è l’esito estremo di questa cancellazione che ha presieduto alla storia repubblicana. Non avere voluto o potuto guardare nel passato ha impedito di disfarsene davvero distruggendolo dentro di sé. In Italia, anziché negare e rifiutare il passato sbagliato e dichiararsene per la propria parte colpevoli, il passato si preferisce «superarlo»: come se potesse esserci, per esempio, un «superamento» del fascismo o del comunismo nella democrazia, la quale è l’opposto di entrambi. Ed è così che da noi prosperano ad ogni stagione i reduci e i nostalgici, i quali non apprendono mai nulla dai loro errori ma anzi li custodiscono amorosamente. La perenne vischiosità della politica italiana, l’invincibile propensione a «mediare», a «concertare», all’«appoggio esterno», alle «convergenze parallele», ai «vertici», sono precisamente il prodotto di questa fissazione del «superamento», di questo rifiuto della «rottura» come atto liberatorio dal passato. È ciò che impedisce di svoltare, di cambiare realmente. Ogni inizio infatti richiede preliminarmente una fine: ma in Italia non finisce mai nulla. Il passato, semplicemente rimosso, dura e sopravvive a se stesso convertendosi in immobilità. Solo in Italia si è verificato il paradosso per cui i principali schieramenti politici nati negli ultimi quindici anni sono stati di fatto composti quasi sempre e quasi interamente di reduci di un passato rimosso, i quali dicevano tuttavia di volere una qualche «rivoluzione» - la «rivoluzione liberale» di Berlusconi o quella «democratica» dell’Ulivo - e alla fine, però, sono diventati tutti protagonisti della conservazione e dell’immobilismo che ci stanno soffocando.
«Corriere della sera» del 22 luglio 2007
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