Uno scritto di Gustaw Herling ribalta i luoghi comuni sui legami tra lo scrittore e il fascismo:«Non fu tradimento: eseguiva un ordine dato personalmente da Stalin e, com’è ovvio, noto anche a Togliatti: mantenere buoni contatti con le camicie nere»
di Gustaw Herling
«Non accettava che in Urss la menzogna fosse la norma: e così fu l’unico a non voler sottoscrivere le condanne a Trotsky senza aver letto le accuse. E il Migliore lo redarguì:"Nessuna decisione importante in Unione Sovietica viene mai messa
per iscritto"»
per iscritto"»
Ricordo le confessioni che mi fece Silone, nei nostri incontri romani, sulla sua militanza nel Partito comunista italiano. Fino al 1927 fu molto vicino a Togliatti, era in un certo senso il suo braccio destro. Accadde che a Mosca Silone si rifiutò, di fronte a Stalin, di condannare il documento di Trotsky, se non avesse avuto la possibilità di leggerlo: Stalin, che non poteva ammettere un simile atteggiamento, incaricò un comunista bulgaro di trascorrere la notte con Silone per chiarirgli quale fosse la situazione in Unione Sovietica. In sintesi questi cercò di spiegare a Silone che non si poteva andare per il sottile, che era in atto un’aspra lotta per il potere e si doveva prendere una posizione: non si trattava di leggere il documento di Trotsky, ma di condannarlo perché così voleva Stalin. Silone si rifiutò di farlo e andò via: nel suo viaggio di ritorno, durante una sosta a Berlino, lesse sui giornali la notizia che all’unanimità era stata approvata la proposta del compagno Stalin di condannare il documento del compagno, o ex compagno Trotsky…
Vi era una cosa che a Silone fece una particolare impressione e che avvertì in modo sempre maggiore: l’Unione Sovietica gli appariva, sia dalle sue esperienze personali, sia da ciò che aveva letto, un impero della menzogna. Ne era terrorizzato e sconvolto; ricordo che quando lesse il libro di Orwell, 1984, mi disse: «È un opera geniale: nel Paese descritto da Orwell non c’è un briciolo di verità ma esiste un ministero della Verità e questo sembra assolutamente sufficiente». Tutto ciò lo impressionò a tal punto che nell’ultima conversazione – mi pare nel 1930 – che ebbe con Togliatti, il quale era rientrato da Mosca e trascorse con lui un’intera notte per dissuaderlo dal rompere col partito, Silone gli disse: «Guarda che un giorno si verranno a sapere le malefatte dei compagni russi e noi, come membri del Partito comunista internazionale ne saremo considerati responsabili. Questo almeno dovrebbe farti riflettere». E Togl iatti gli rispose: «Se è questo che ti preoccupa, ti posso tranquillizzare: so per certo che nessuna decisione importante in Unione Sovietica viene messa per iscritto».
Togliatti ne era persuaso, e qui si vede la sua ignoranza e la sua stupidità. Se ad esempio avesse letto il capolavoro di Gogol’, Il cappotto, avrebbe capito che i russi sono un popolo che adora i protocolli, le copie, le trascrizioni, i verbali, ecc. Come si dice giustamente che gli americani non vedono la realtà circostante se non viene prima fotografata, così i russi non accettano nessun fatto se in qualche modo non viene protocollato e scritto. E in questi ultimi anni si è visto cosa è accaduto dopo la caduta del comunismo, quando si sono aperti gli archivi a Mosca. Si è trovato di tutto! Persino l’ordine ufficiale, su carta intestata, di fucilare gli ufficiali polacchi a Katyn, firmato da Stalin, da Berija e dai membri del Politburo. La situazione è diventata così difficile che a un certo punto Eltsin ha deciso di chiudere e limitare l’accesso agli archivi, perché troppa gente veniva dai Paesi occidentali e con pochi soldi si impossessava dei documenti. È evidente che Togliatti, il quale si vantava di conoscere la Russia e i russi, ha rivelato qui la sua assoluta ignoranza: se avesse assistito al crollo del comunismo, sarebbe rimasto assolutamente allibito da tutto ciò che è uscito dagli archivi sovietici.
Silone odiava il sistema sovietico non per ragioni politiche, ma soprattutto per ragioni umane e morali. Non poteva, come non può ogni persona onesta, concepire uno Stato in cui la menzogna è una norma, una consuetudine. Una volta mi raccontò che durante una riunione a Mosca, era presente un comunista inglese, il quale durante il dibattito dichiarò: «Io non posso votare questa deliberazione perché è falsa». Tutti lo additarono come un eccentrico e sembrò incredibile che ci potesse essere qualcuno che non poteva accettare di dire una bugia! Era un fenomeno molto tipico del sistema sovietico: Silone ne era inorridito proprio perché, a differenza di Togliatti, non poteva accettare che fossero compiuti atti efferati nella totale impunità. Era questo un punto importante in tutto ciò che egli mi raccontava nei nostri incontri romani.
Quando collaboravo a Tempo presente, mi recavo ogni mese a Roma, alla redazione della rivista, e facevo sempre una visita a Silone. Lui si interessava molto a ciò che accadeva nell’Europa orientale, di cui scrivevo su Tempo presente. Nei nostri incontri, io gli parlavo della situazione in quei Paesi, mentre lui commentava la vita politica in Italia, cosa che per me era molto interessante. Era davvero un osservatore straordinario! La sua rubrica fissa sulla rivista, intitolata Agenda, era molto acuta, saggia e a volte profetica: sarebbe bello se un giorno un editore la raccogliesse per pubblicarla in un volume. Ricordo un episodio non privo di attualità: alla fine degli anni Cinquanta Silone fece un’indagine sulla vita dei grandi partiti in Italia e ne rimase fortemente turbato. Ciò che mi disse era praticamente un annuncio profetico del fenomeno al quale poi è stato dato il nome di Tangentopoli. Le sue analisi erano penetranti: non partecipava alla vita politica italiana, ma era un osservatore acuto di ciò che accadeva in Italia.
Vorrei affrontare ora il "grande giallo su Silone" al quale si richiama nel suo titolo il convegno organizzato dall’Istituto Suor Orsola Benincasa, «Il segreto di Silone». Ora, secondo me il punto centrale è questo: perché Togliatti, che allora odiava Silone, dopo la rottura del 1930, avendo a disposizione tutto il materiale degli archivi, e dopo aver ascoltato il direttore dell’Ovra, Guido Leto, non rese pubblico il tradimento di Silone? Era stato un traditore, una spia dell’Ovra: perché Togliatti non lo rivelò? Non lo si può spiegare; ma se non si risponde a questa domanda, tutta la costruzione dei ricercatori sul caso Silone non sta in piedi! Se non si risponde a questa domanda, tutto l’edificio di accuse contro Silone crolla! E non è sufficiente, a giustificare l’intera vicenda, la sorte del giovane fratello, morto a Procida… Ebbe una certa parte nelle decisioni di Silone, perché so bene che lui ne fu sconvolto, come spesso mi ha raccontato sua moglie Darina. Ma non può bastare a giustificarla. Né può bastare affermare: perché Togliatti aveva paura di Stalin. No, vi era un’altra ragione molto semplice, secondo me.
Togliatti era consapevole che, se avesse parlato, Silone, che era in vita, avrebbe risposto alla sua denuncia, raccontando fino in fondo come stavano le cose. E cioè che Stalin aveva imposto ai comunisti stranieri di stabilire rapporti coi regimi che considerava ricchi di potenzialità rivoluzionarie, come si diceva allora nel gergo comunista. E tali Paesi erano allora la Germania e anche l’Italia. Sono certo che questa era una direttiva del partito, un ordine dato personalmente da Stalin: dovete mantenere buoni contatti con i fascisti italiani! D’altronde troppo spesso si dimentica un testo famoso, scritto da Togliatti, che si intitola Ai fratelli in camicia nera ed è stato ristampato dopo la guerra da Giulio Seniga, ex segretario di Pietro Secchia. È stato dunque Togliatti a rivolgersi ai fratelli in camicia nera, e gli storici che si sono occupati del caso Silone non capiscono assolutamente l’epoca in cui quella vicenda si è svolta.
Vi era una cosa che a Silone fece una particolare impressione e che avvertì in modo sempre maggiore: l’Unione Sovietica gli appariva, sia dalle sue esperienze personali, sia da ciò che aveva letto, un impero della menzogna. Ne era terrorizzato e sconvolto; ricordo che quando lesse il libro di Orwell, 1984, mi disse: «È un opera geniale: nel Paese descritto da Orwell non c’è un briciolo di verità ma esiste un ministero della Verità e questo sembra assolutamente sufficiente». Tutto ciò lo impressionò a tal punto che nell’ultima conversazione – mi pare nel 1930 – che ebbe con Togliatti, il quale era rientrato da Mosca e trascorse con lui un’intera notte per dissuaderlo dal rompere col partito, Silone gli disse: «Guarda che un giorno si verranno a sapere le malefatte dei compagni russi e noi, come membri del Partito comunista internazionale ne saremo considerati responsabili. Questo almeno dovrebbe farti riflettere». E Togl iatti gli rispose: «Se è questo che ti preoccupa, ti posso tranquillizzare: so per certo che nessuna decisione importante in Unione Sovietica viene messa per iscritto».
Togliatti ne era persuaso, e qui si vede la sua ignoranza e la sua stupidità. Se ad esempio avesse letto il capolavoro di Gogol’, Il cappotto, avrebbe capito che i russi sono un popolo che adora i protocolli, le copie, le trascrizioni, i verbali, ecc. Come si dice giustamente che gli americani non vedono la realtà circostante se non viene prima fotografata, così i russi non accettano nessun fatto se in qualche modo non viene protocollato e scritto. E in questi ultimi anni si è visto cosa è accaduto dopo la caduta del comunismo, quando si sono aperti gli archivi a Mosca. Si è trovato di tutto! Persino l’ordine ufficiale, su carta intestata, di fucilare gli ufficiali polacchi a Katyn, firmato da Stalin, da Berija e dai membri del Politburo. La situazione è diventata così difficile che a un certo punto Eltsin ha deciso di chiudere e limitare l’accesso agli archivi, perché troppa gente veniva dai Paesi occidentali e con pochi soldi si impossessava dei documenti. È evidente che Togliatti, il quale si vantava di conoscere la Russia e i russi, ha rivelato qui la sua assoluta ignoranza: se avesse assistito al crollo del comunismo, sarebbe rimasto assolutamente allibito da tutto ciò che è uscito dagli archivi sovietici.
Silone odiava il sistema sovietico non per ragioni politiche, ma soprattutto per ragioni umane e morali. Non poteva, come non può ogni persona onesta, concepire uno Stato in cui la menzogna è una norma, una consuetudine. Una volta mi raccontò che durante una riunione a Mosca, era presente un comunista inglese, il quale durante il dibattito dichiarò: «Io non posso votare questa deliberazione perché è falsa». Tutti lo additarono come un eccentrico e sembrò incredibile che ci potesse essere qualcuno che non poteva accettare di dire una bugia! Era un fenomeno molto tipico del sistema sovietico: Silone ne era inorridito proprio perché, a differenza di Togliatti, non poteva accettare che fossero compiuti atti efferati nella totale impunità. Era questo un punto importante in tutto ciò che egli mi raccontava nei nostri incontri romani.
Quando collaboravo a Tempo presente, mi recavo ogni mese a Roma, alla redazione della rivista, e facevo sempre una visita a Silone. Lui si interessava molto a ciò che accadeva nell’Europa orientale, di cui scrivevo su Tempo presente. Nei nostri incontri, io gli parlavo della situazione in quei Paesi, mentre lui commentava la vita politica in Italia, cosa che per me era molto interessante. Era davvero un osservatore straordinario! La sua rubrica fissa sulla rivista, intitolata Agenda, era molto acuta, saggia e a volte profetica: sarebbe bello se un giorno un editore la raccogliesse per pubblicarla in un volume. Ricordo un episodio non privo di attualità: alla fine degli anni Cinquanta Silone fece un’indagine sulla vita dei grandi partiti in Italia e ne rimase fortemente turbato. Ciò che mi disse era praticamente un annuncio profetico del fenomeno al quale poi è stato dato il nome di Tangentopoli. Le sue analisi erano penetranti: non partecipava alla vita politica italiana, ma era un osservatore acuto di ciò che accadeva in Italia.
Vorrei affrontare ora il "grande giallo su Silone" al quale si richiama nel suo titolo il convegno organizzato dall’Istituto Suor Orsola Benincasa, «Il segreto di Silone». Ora, secondo me il punto centrale è questo: perché Togliatti, che allora odiava Silone, dopo la rottura del 1930, avendo a disposizione tutto il materiale degli archivi, e dopo aver ascoltato il direttore dell’Ovra, Guido Leto, non rese pubblico il tradimento di Silone? Era stato un traditore, una spia dell’Ovra: perché Togliatti non lo rivelò? Non lo si può spiegare; ma se non si risponde a questa domanda, tutta la costruzione dei ricercatori sul caso Silone non sta in piedi! Se non si risponde a questa domanda, tutto l’edificio di accuse contro Silone crolla! E non è sufficiente, a giustificare l’intera vicenda, la sorte del giovane fratello, morto a Procida… Ebbe una certa parte nelle decisioni di Silone, perché so bene che lui ne fu sconvolto, come spesso mi ha raccontato sua moglie Darina. Ma non può bastare a giustificarla. Né può bastare affermare: perché Togliatti aveva paura di Stalin. No, vi era un’altra ragione molto semplice, secondo me.
Togliatti era consapevole che, se avesse parlato, Silone, che era in vita, avrebbe risposto alla sua denuncia, raccontando fino in fondo come stavano le cose. E cioè che Stalin aveva imposto ai comunisti stranieri di stabilire rapporti coi regimi che considerava ricchi di potenzialità rivoluzionarie, come si diceva allora nel gergo comunista. E tali Paesi erano allora la Germania e anche l’Italia. Sono certo che questa era una direttiva del partito, un ordine dato personalmente da Stalin: dovete mantenere buoni contatti con i fascisti italiani! D’altronde troppo spesso si dimentica un testo famoso, scritto da Togliatti, che si intitola Ai fratelli in camicia nera ed è stato ristampato dopo la guerra da Giulio Seniga, ex segretario di Pietro Secchia. È stato dunque Togliatti a rivolgersi ai fratelli in camicia nera, e gli storici che si sono occupati del caso Silone non capiscono assolutamente l’epoca in cui quella vicenda si è svolta.
«Avvenire» dell’11 luglio 2007
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