Un nuovo libro suggerisce 50 film da vedere per imparare a gestire un’azienda. Seguendo l’esempio di John Wayne e Penélope Cruz
di Enzo Riboni
Carabina Winchester stretta nella destra, sella e coperta sul braccio sinistro, bretelle e cappellaccio ex guerra di secessione, sguardo deciso ma sofferto puntato alla Frontiera. Il John Wayne di Sentieri selvaggi, opera cult di John Ford, è alla caccia dei Comanchi per riprendersi la nipote rapita. E’la sua "mission", come direbbero oggi in azienda, e la persegue senza tregua. Ma è "solo" un film, un modo per distrarsi la mente dopo un giorno di lavoro. E se fosse invece una via per capire di più l’azienda quando si torna in ufficio? La vede proprio così Il grande libro del cinema per manager, appena arrivato in libreria per i tipi di Etas, con quattro autori (Francesco Bogliari, Sergio Di Giorgi, Marco Lombardi e Piero Trupia) che "leggono" 50 film ad uso e consumo dei manager. Con una morale e un suggerimento: dai libri di management si impara poco, meglio andarsi a vedere un buon film. Come Sentieri selvaggi, appunto, dove in John Wayne si scopre una schiera di metafore ad uso aziendale: l’ossessione del perseguimento dell’obiettivo, l’odio che si trasforma nella gestione della diversità (il "diversity management" oggi tanto di moda), l’appartenenza, la leadership e la solitudine. Troppa roba per un film western? Forse, ma visto che tra non molto partono le vacanze anche per i più malati di lavoro compulsivo, potrebbe convenire mettersi in valigia qualche Dvd, pescando tra i 50 film consigliati. Come The terminal di Steven Spielberg, dove un Tom Hanks proveniente dall’Est Europa, dovendo restare a lungo "prigioniero" in aeroporto a New York per ragioni di immigrazione, a proposito di diversity riesce a trasformare la sua "diversità" in una strategia innovativa. E a perseguire la sua mission diventando di fatto un imprenditore creativo. E altrettanto spirito imprenditoriale dimostra la straordinaria Raimunda-Penélope Cruz di Volver, l’ultimo capolavoro di Pedro Almodóvar, ribaltando un destino avverso in un fantastico sogno-impresa-manageriale, reso possibile da quella "skill" al femminile che è la capacità relazionale. Del resto il racconto, le storie di successo di fulminanti carriere manageriali, vengono spesso usate in azienda come escamotage formativi, come incentivi per stimolare l’emulazione. Anche se poi può capitare che la vera storia sia un po’meno "nobile" di quanto si racconti. Come drammaticamente ci suggerisce The Manchurian candidate di Jonathan Demme, dove il buono Denzel Washington, maggiore dei marine e veterano della Guerra del Golfo, e la spietata senatrice Meryl Streep, legata agli interessi della multinazionale Manchurian Global, si scontrano su una vecchia storia di successo: il figlio della Streep è candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti grazie al suo comportamento eroico in Desert Storm. Ha salvato il maggiore Washington, si racconta, ma poi si scopre che non è affatto un eroe. Morale? Attenzione alla comunicazione (d’impresa) quando dietro ci sono lobby industriali, quando lo "story-telling" del successo aziendale ha contorni un po’troppo virtuosi. Che poi, trasformando il dramma in commedia, si potrebbe metterla anche così: "L’apparenza inganna". Come dice il film di Francis Veber: quando l’interprete Daniel Auteuil fa il "normale" impiegato nessuno lo stima e rischia persino il licenziamento, quando si finge gay diventa la star aziendale. Potenza della retorica del "politically correct".
«Corriere della sera» del 22 giugno 2007
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