Facile affermare di aver individuato la sede di una funzione particolare: ma si rischia un'immagine riduttiva della mente
di Alberto Oliverio
Dopo l’intervento di domenica del cardinale Angelo Scola sull’impossibilità per la scienza di trascurare la dimensione spirituale dell’uomo, ossia la sua l’anima, interviene lo psicobiologo Alberto Oliverio. Mentre alcuni filosofi ne hanno discusso in una tavola rotonda
Nel suo intervento sulla visione neuroscientifica dei rapporti tra mente e cervello, il cardinale Angelo Scola invita i neuroscienziati a non ridurre l'io alle sue dimensioni biochimiche, al complesso gioco di sinapsi e neuroni, ma a interrogarsi su quella dimensione spirituale, l'anima, senza di cui si rischia di imboccare la via di uno scientismo che impoverisce la complessità umana.
Mi pare anzitutto che l'intervento del patriarca di Venezia sul rapporto tra l'anima e le scienze si caratterizzi per la conoscenza dei più recenti risultati delle neuroscienze contemporanee, che spesso rischiano di avvalorare una concezione meccanicistica della mente umana in cui ci si può limitare e descrivere in quali sedi hanno luogo, o da quali sedi scaturiscono, memorie, emozioni, decisioni e persino giudizi morali.
Le neuroscienze hanno compiuto in pochi decenni passi da gigante e grazie a tecniche sempre più sofisticate possono accertare dove si verifica una particolare funzione mentale, ad esempio quali nuclei o aree della corteccia si attivano quando siamo emozionati: le tecniche di visualizzazione o di brain imaging che dir si voglia, hanno però una dimensione ambigua, in quanto il vedere che una parte del mio cervello si attiva quando ad esempio mento o elaboro un'operazione aritmetica può suggerire che un'area specifica abbia la responsabilità esclusiva di una particolare funzione e ignorare invece il percorso che mi ha portato ad emozionarmi, i valori che vengono affermati o negati, gli apprendimenti che mi hanno portato a far di calcolo e, soprattutto, le altre sedi che nel cervello contribuiscono a quella funzione ma che, per una forma di semplificazione metodologica, vengono trascurate come meno rilevanti.
Per un neuroscienziato è più facile affermare - e più attraente in senso mediatico - che ha individuato la sede di una funzione particolare: ma rischia appunto di dare un'immagine meccanicistica della mente e dello stesso cervello, al di là di espe rienze, motivazioni, desideri e scopi, indubbiamente più sfuggenti in senso neuroscientifico.
Una seconda riflessione: è vero che «il nostro cervello vuole credere», come indica Scola citando il saggio di Gazzaniga su La mente etica, ed è vero che in una serie di esperimenti che hanno sollevato notevole clamore è stato suggerito che alcune scelte morali siano pressoché automatiche in quanto dipendenti da un cervello etico che segnala con un forte coinvolgimento emotivo le violazioni di alcune norme morali, ad esempio il danneggiare fisicamente un'altra persona. Tuttavia più complesse sono le scelte morali, più ci si deve emancipare da una risposta istintuale, automatica, peraltro già presente nei primati non umani. E inoltre, l'etica implica che ci si affranchi da eventuali condizionamenti naturali, che si vada oltre l'istinto, che si agisca a fin di bene (malgrado le tante violazioni di questo principio) sulla base di valori appresi, meditati, al centro di una concezione del mondo che non è parte naturale del nostro cervello.
Vi è poi un altro aspetto che accomuna le proprietà dei cervelli umani o non umani che essi siano: si tratta della capacità delle reti nervose di svolgere funzioni intelligenti, registrando esperienze, adeguando il comportamento a situazioni note o nuove, accompagnando memorie, decisioni, desideri e scopi a una dimensione emotiva.
Ovviamente il cervello e la mente umana sono ben diversi e ben più complessi rispetto al cervello di altre specie animali, anche vicine a noi: per i neuroscienziati somiglianze e diversità rimandano a una storia evolutiva ma soprattutto a quelle proprietà delle reti nervose da cui emergono comportamenti complessi. È per questo motivo che mi pare che le proprietà della mente, o più in generale delle menti, non implichino necessariamente una dimensione spirituale, non rendano necessaria un'ibridazione tra fisica e metafisica, la ricerca di ciò che non è evidente.
Sono perfettamente d'accordo che la de scrizione dei meccanismi nervosi non restituisce la complessità di una mente e della visione del mondo del singolo individuo: ma ritengo improprio ipotizzare un dualismo in cui sia l'anima che muove l'Io. L'anima, insomma, non fa parte di una categoria neuroscientifica: per il credente è un principio immortale che va oltre mente e cervello, ma anche per un neuroscienziato laico la mente non coincide coi meccanismi cerebrali, nel senso che rispecchia una concezione integrata della mente di un singolo individuo, delle sue esperienze e valori.
La razionalità, indica il cardinale Scola, ha forme molteplici: i neuroscienziati possono praticare una sola forma di razionalità e sbaglierebbero se la incrociassero con ciò che non è conoscibile scientificamente. Senza naturalmente precludere o svalutare il punto di vista della metafisica.
Mi pare anzitutto che l'intervento del patriarca di Venezia sul rapporto tra l'anima e le scienze si caratterizzi per la conoscenza dei più recenti risultati delle neuroscienze contemporanee, che spesso rischiano di avvalorare una concezione meccanicistica della mente umana in cui ci si può limitare e descrivere in quali sedi hanno luogo, o da quali sedi scaturiscono, memorie, emozioni, decisioni e persino giudizi morali.
Le neuroscienze hanno compiuto in pochi decenni passi da gigante e grazie a tecniche sempre più sofisticate possono accertare dove si verifica una particolare funzione mentale, ad esempio quali nuclei o aree della corteccia si attivano quando siamo emozionati: le tecniche di visualizzazione o di brain imaging che dir si voglia, hanno però una dimensione ambigua, in quanto il vedere che una parte del mio cervello si attiva quando ad esempio mento o elaboro un'operazione aritmetica può suggerire che un'area specifica abbia la responsabilità esclusiva di una particolare funzione e ignorare invece il percorso che mi ha portato ad emozionarmi, i valori che vengono affermati o negati, gli apprendimenti che mi hanno portato a far di calcolo e, soprattutto, le altre sedi che nel cervello contribuiscono a quella funzione ma che, per una forma di semplificazione metodologica, vengono trascurate come meno rilevanti.
Per un neuroscienziato è più facile affermare - e più attraente in senso mediatico - che ha individuato la sede di una funzione particolare: ma rischia appunto di dare un'immagine meccanicistica della mente e dello stesso cervello, al di là di espe rienze, motivazioni, desideri e scopi, indubbiamente più sfuggenti in senso neuroscientifico.
Una seconda riflessione: è vero che «il nostro cervello vuole credere», come indica Scola citando il saggio di Gazzaniga su La mente etica, ed è vero che in una serie di esperimenti che hanno sollevato notevole clamore è stato suggerito che alcune scelte morali siano pressoché automatiche in quanto dipendenti da un cervello etico che segnala con un forte coinvolgimento emotivo le violazioni di alcune norme morali, ad esempio il danneggiare fisicamente un'altra persona. Tuttavia più complesse sono le scelte morali, più ci si deve emancipare da una risposta istintuale, automatica, peraltro già presente nei primati non umani. E inoltre, l'etica implica che ci si affranchi da eventuali condizionamenti naturali, che si vada oltre l'istinto, che si agisca a fin di bene (malgrado le tante violazioni di questo principio) sulla base di valori appresi, meditati, al centro di una concezione del mondo che non è parte naturale del nostro cervello.
Vi è poi un altro aspetto che accomuna le proprietà dei cervelli umani o non umani che essi siano: si tratta della capacità delle reti nervose di svolgere funzioni intelligenti, registrando esperienze, adeguando il comportamento a situazioni note o nuove, accompagnando memorie, decisioni, desideri e scopi a una dimensione emotiva.
Ovviamente il cervello e la mente umana sono ben diversi e ben più complessi rispetto al cervello di altre specie animali, anche vicine a noi: per i neuroscienziati somiglianze e diversità rimandano a una storia evolutiva ma soprattutto a quelle proprietà delle reti nervose da cui emergono comportamenti complessi. È per questo motivo che mi pare che le proprietà della mente, o più in generale delle menti, non implichino necessariamente una dimensione spirituale, non rendano necessaria un'ibridazione tra fisica e metafisica, la ricerca di ciò che non è evidente.
Sono perfettamente d'accordo che la de scrizione dei meccanismi nervosi non restituisce la complessità di una mente e della visione del mondo del singolo individuo: ma ritengo improprio ipotizzare un dualismo in cui sia l'anima che muove l'Io. L'anima, insomma, non fa parte di una categoria neuroscientifica: per il credente è un principio immortale che va oltre mente e cervello, ma anche per un neuroscienziato laico la mente non coincide coi meccanismi cerebrali, nel senso che rispecchia una concezione integrata della mente di un singolo individuo, delle sue esperienze e valori.
La razionalità, indica il cardinale Scola, ha forme molteplici: i neuroscienziati possono praticare una sola forma di razionalità e sbaglierebbero se la incrociassero con ciò che non è conoscibile scientificamente. Senza naturalmente precludere o svalutare il punto di vista della metafisica.
«Avvenire» del 17 luglio 2007
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