di Magdi Allam
Vorrei tranquillizzare la signora Monia Mzoughi: dal processo che la vede imputata per essersi presentata nascosta sotto una gabbia di stoffa nera nel tribunale di Cremona, ne uscirà a testa alta anche se avvolta dal niqab o dal burqa. Ci faremo perdonare per la vessazione da lei subita concedendole la cittadinanza italiana, visto che risiede tra noi da ben 37 anni, anche se con quel suo muro eretto dal velo integrale lei non si considera affatto parte di noi. E la nostra Italia si confermerà sempre più preda dell’islamicamente corretto. Al procuratore capo Adriano Padula deve essere sfuggita la circolare del Dipartimento della Polizia di Stato del dicembre 2004 che esclude che il velo integrale indossato dalle donne musulmane possa costituire reato in quanto sarebbe un «segno esteriore di una tipica fede religiosa» e una «pratica devozionale». Precisiamo che non stiamo parlando del semplice copricapo, il hijab, sulla cui legittimità si è addirittura espressa, con la sentenza definitiva numero 11919, la Terza sezione penale della Corte di Cassazione di Roma che il 4 aprile 2006 ha deliberato che «la religione musulmana impone alle credenti» di portare il velo. Accreditando nel nostro ordinamento giuridico laico quello che è escluso e addirittura sanzionato nei codici dei Paesi islamici. No, stiamo parlando del velo integrale che imprigiona la donna dalla punta dei capelli alle dita dei piedi, annullandone il fisico e umiliando la personalità. La circolare del Dipartimento della Polizia di Stato fa un preciso riferimento all’articolo 5 della legge 152 del 1975, sulla cui base Padula ha rinviato a giudizio la Mzoughi, «perché in luogo pubblico, senza giustificato motivo, indossava un velo che, coprendole il volto, ne rendeva difficile il riconoscimento da parte delle forze dell’ordine». Ebbene la circolare chiarisce subito che «il reato non sussiste quando si tratta di veli o altri copricapo che, a differenza del burqa, non incidono significativamente sulla riconoscibilità della persona». Ma subito dopo legittima anche il velo integrale islamico perché «se l’ordinamento ammette vincoli più o meno rigorosi per quanto concerne gli statuti religiosi, da una parte, e le pratiche di culto dall’altra, vi sono obiettive difficoltà a riconoscere l’esistenza di un vincolo ostativo all’adozione di una pratica devozionale, quale può ritenersi l’uso del burqa, per un divieto che lo stesso legislatore esita a porre in termini assoluti». Si arriva al punto di ammonire che «identificare reiteratamente ogni persona che circoli con il burqa, prima che l’autorità giudiziaria si sia pronunciata sulla sussistenza o meno di un giustificato motivo che escluda il reato, o senza un rilevante interesse pubblico, potrebbe costituire un eccesso non consentito e verrebbe percepito come una inutile vessazione». La magistratura pertanto non potrà non tener conto che per l’esecutivo il velo integrale islamico è assolutamente legittimo e, a meno che non si voglia scatenare una battaglia giudiziaria tra i poteri dello Stato, vedrà ridotto il proprio campo d’azione nell’accertare se sia sussistito o meno un «giustificato motivo» o un «rilevante interesse pubblico» a identificare la Mzoughi obbligandola a togliersi in pubblico il niqab. Prima ci hanno detto che il copricapo femminile è un precetto islamico. E abbiamo risposto: così sia, nel nome della libertà individuale. Poi ci hanno detto che il velo integrale è un simbolo islamico. E abbiamo risposto: così sia, nel nome del rispetto religioso. Infine ci hanno detto che servono piscine e spiagge separate perché le «vere musulmane» non possono mostrare il loro corpo in pubblico. E abbiamo risposto: così sia, nel nome del business dei ghetti per sole donne. A questo punto c’è da attendersi che ci chiedano di indossare noi, non loro, il hijab, il niqab o il burqa e di dividerci per sesso al mare, a scuola, in ufficio e fin dentro casa nostra. E noi cosa risponderemo? Così sia, nel nome dell’islamicamente corretto che è il fulcro del relativismo cognitivo, culturale e religioso che sta facendo perdere la testa e l’anima all’Occidente.
«Corriere della sera» del 15 luglio 2007
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