Un grande filologo e la storia di un’idea: dalla Grecia al ‘700 sino a Mark Rothko e Barnett Newman
di Glenn Most
Il sublime ha davvero cessato di esistere alla metà del XIX secolo? Da una parte, non c’è dubbio che a quell’epoca una certa forma di sublime abbia perlopiù smesso di essere in voga in Europa. Per quanto riguarda la teoria estetica, infatti, gli ultimi filosofi per i quali il sublime fu una categoria rilevante furono Hegel e la sua prima generazione di allievi. Nella poesia lirica, la grande stagione del sublime romantico di Wordsworth, Shelley, Coleridge, Hölderlin e Leopardi, alla metà del secolo cedette il passo a una poetica dai toni più dimessi o più ironici. Si potrebbe forse dissentire sul momento preciso in cui il sublime tramontò in ciascuna disciplina, ma sembra impossibile negare che, alla seconda metà dell’Ottocento, la cultura europea nel suo insieme aveva compiuto il piccolo passo che, a detta di Napoleone, separava il sublime dal ridicolo. D’altra parte, sembra egualmente impossibile negare che in un certo numero di campi il sublime abbia beneficiato di una notevole reviviscenza durante la seconda metà del XX secolo. Per quanto riguarda le arti figurative, Barnett Newman e Mark Rothko dipinsero a colori forti tele non rappresentative che raggiungevano efficacemente lo scopo di produrre sensazioni di disagio oceanico e di agitazione ansiosa nello spettatore. Nel saggio Il sublime oggi, Newman sostenne che l’arte americana a lui contemporanea stava tentando di far rivivere la tradizione del sublime, in voluto contrasto con il gusto artistico europeo che amava l’opera piccola, graziosa, fastidiosamente rappresentativa. La scomparsa del sublime nel XIX secolo e la sua diffusione nel XX secolo sono fatti altrettanto evidenti e, proprio per questo motivo, rappresentano un problema teorico di notevole importanza e difficoltà. L’unico modo per risolvere questa difficoltà consiste, a mio parere, nel fare un distinguo fra il concetto di sublime e l’opera classica di Longino. Si consideri quindi non tanto la grandezza del sublime longiniano bensì il suo legame con l’idea che il mondo sia governato da una sorta di volontà divina. È facile che il terrore che sempre accompagna il manifestarsi del sublime induca erroneamente l’osservatore a pensare di trovarsi di fronte alla storia della distruzione dell’umanità a opera di un universo indifferente. Ciò che il sublime intende significare, invece, è tutt’altra cosa: non parla solo di pericolo e di distruzione, ma soprattutto di elevazione spirituale, morale e intellettuale al disopra della quotidianità e della bassezza dell’individuo. Esso permette all’uomo di accedere a un livello dal quale guarda a distanza le proprie limitazioni e si identifica con il punto di vista del dio, che è responsabile ultimo del mondo e del ruolo che in esso è assegnato all’umanità. Per Longino, il sublime non è solo una categoria letteraria o retorica: le grandi opere della letteratura classica greca fanno riferimento a un modello antropologico e cosmologico che naturalizza il sublime, così da permettere di interpretare l’ordinaria insoddisfazione della vita come prova della destinazione dell’umanità a forme di realtà più alte e più nobili. Percepire e comprendere il sublime non è esattamente come farsi dio, poiché ciò è precluso ai mortali, ma comporta il massimo avvicinamento possibile per l’uomo al livello della divinità. Si potrebbe dunque concludere forse che la possibilità di elevazione insita nel sublime dipenda dall’assunzione di esistenza di una divinità ordinatrice del mondo. Senza la provvidenza, l’esperienza del sublime non si rivelerebbe una catastrofe senza scampo? Che tale convinzione sia errata, è provato dall’opera di almeno un celebre autore antico, Lucrezio, autore del poema didattico epicureo De rerum natura. Il De rerum natura può essere visto come una serie di impressionanti esempi di sublime. Si consideri, ad esempio, il famoso incipit del secondo libro. Le parole usate da Lucrezio non sfigurerebbero nel catalogo di una mostra d’arte sul sublime del XVIII secolo: descrivono infatti una nave in preda alla tempesta, un campo di battaglia gremito di truppe e straziato dalla carneficina. Il piacere che viene evocato da Lucrezio non deriva in prima linea dalla soddisfazione sadica di assistere alle sofferenze altrui, ma dalla coscienza della distanza dalla quale si osservano gli errori nei quali incorre la maggior parte degli uomini. Questa elevazione cognitiva salva l’Epicureo dalla miseria umana e lo avvicina alla saggezza divina. Secondo Epicuro e Lucrezio, certamente, gli dei esistono; ma non concorrono in alcun modo all’ordinamento del mondo né si occupano di punire, di ricompensare, di provocare eventi o di agire in qualunque modo che possa turbare la loro perfetta beatitudine o scalfire la loro assoluta indifferenza. Lucrezio non formula mai esplicitamente una teoria del sublime; tuttavia il linguaggio e la retorica da lui impiegati non possono non indurre il lettore a portare la sua teoria alla luce. Mentre il sublime longiniano è una forma di teodicea che giustifica la sofferenza umana richiamandosi alla logica superiore della saggezza divina, il sublime di Lucrezio venera una forma di eroismo umano, che si rivela possibile in un universo abbandonato a se stesso dagli dei. Il sublime longiniano magnifica il dio, di cui si sperimenta il potere e la benevolenza anche attraverso la sofferenza e il rischio di distruzione, mentre si supera la propria piccolezza. Il sublime di Lucrezio, invece, magnifica l’uomo, che raggiunge la grandezza proprio in assenza di una divinità effettiva e diviene perciò egli stesso una specie di dio entro un mondo spogliato di significato ultimo. Sarebbe troppo semplice, tuttavia, concludere senza nemmeno un cenno ai pericoli insiti nella concezione del sublime di Lucrezio. Tuttavia, non è facile dare un senso alla vita se si dispone solo di atomi, di vuoto e di casualità. Essere liberi dal giogo di un dio apre grandi spazi alle ambizioni del soggetto, ma provoca allo stesso tempo un senso di instabilità e di solitudine tale da privare l’uomo di qualunque felicità duratura. «Life at the top is lonely», recita un adagio americano. La malinconia è la malattia professionale di chi pratica il sublime di Lucrezio. Secondo la testimonianza pur non pienamente affidabile di Geronimo, il poeta latino stesso diventò folle per aver abusato di un filtro d’amore e scrisse il De rerum natura durante brevi intervalli di lucidità, prima di darsi la morte. Sono certe, invece, le notizie biografiche sugli artisti più vicini a noi. Mark Rothko si tolse la vita tagliandosi le vene nel suo studio, a New York, il 25 febbraio 1970.
Glenn W. Most (1952) è professore ordinario di Filologia greca alla Scuola Normale. Si è laureato in Filologia latina ad Harvard e poi ha studiato a Yale Il testo integrale della conferenza che Most terrà domani a Camigliatello sarà pubblicato sulla rivista «Aevum Antiquum»
«Corriere della sera» del 20 luglio 2007
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