Politica e «rivoluzione giudiziaria»
di Angelo Panebianco
A quindici anni di distanza dalla «rivoluzione giudiziaria» del 1992 (l’avvio dell’inchiesta detta di Mani Pulite e il terremoto che ne seguì) la politica non è stata ancora capace di trovare, sul piano istituzionale come su quello simbolico, le risorse necessarie per riportare a fisiologica normalità i rapporti fra potere giudiziario e poteri rappresentativi. Questa incapacità della classe politica non è dipesa da una sua generica e presunta «debolezza» ma dal fatto che essa è sempre stata profondamente divisa sul che fare. L’origine di quella divisione va ricercata nel diverso atteggiamento che le varie frazioni della classe politica assunsero nei confronti degli eventi del ‘92-93 e dei differenti vantaggi e svantaggi che (a breve termine) ne ricavarono. Molte delle attuali difficoltà che la dirigenza dei Ds incontra nel fronteggiare la bufera da cui è stata investita per il caso intercettazioni-Unipol hanno lì la loro radice. Nel ‘92, l’allora Pds scelse compattamente (gli scrupoli garantisti di qualche singola personalità non ebbero alcuna rilevanza politica) di appoggiare fino in fondo l’azione dei magistrati. Anche, bisogna ricordarlo, gli aspetti meno commendevoli, più censurabili, di quella rivoluzione giudiziaria ricevettero allora il suo incondizionato appoggio. Il Pds, poi Ds, divenne il «partito delle procure», la lobby parlamentare più sicura e affidabile su cui i gruppi di magistrati più attivi potessero contare al fine di impedire interventi non graditi del potere politico. Non c’è nulla di strano, sia chiaro. La politica è fatta di convenienze e ai Ds conveniva (o così a loro sembrava) essere schierati con la rivoluzione giudiziaria e i suoi protagonisti. Per due ragioni. Perché così facendo consolidavano il loro rapporto di buon vicinato con la più potente (e temibile) corporazione del Paese e perché, in secondo luogo, la rivoluzione giudiziaria aveva effetti assai più devastanti per i loro nemici politici che per loro stessi. Ogni colpo di maglio, ogni avviso di garanzia, che ricevevano gli avversari politici avvicinava o sembrava avvicinare il momento in cui il Pds avrebbe ereditato il governo del Paese. Quando poi sulla scena irruppe Berlusconi distruggendo i sogni di gloria affidati alla «gioiosa macchina da guerra» (Occhetto), i diessini non trovarono alcun motivo per cambiare atteggiamento, per assumere una posizione più equilibrata, più attenta alle garanzie, meno disponibile a blandire acriticamente il potere giudiziario. Fin quando i colpi di maglio continuavano a riguardare soprattutto gli avversari politici non c’erano serie ragioni di ripensamento. Per amor di verità va ricordato che, in tempi non sospetti, ci fu un’autorevolissima voce diessina che a un certo punto si levò a stigmatizzare certi eccessi: quella di Luciano Violante. Una cosa meno sorprendente di quanto potesse apparire a prima vista: per il suo passato, il suo ruolo a cavallo fra magistratura e politica e la sua competenza, Violante era in realtà l’unico fra i diessini che potesse davvero permetterselo. Ma nemmeno le sue parole ebbero alcun seguito. Da qui tutto il resto. Intercettazioni selvagge? Certo. Ma mai una volta nei lunghi anni in cui il fenomeno colpì tanti altri (compresi moltissimi che con la politica non c’entravano affatto) i diessini, timorosi dei veti di fonte giudiziaria, mossero un dito per porre fine a certi sviluppi patologici. Oppure si prenda il caso della famosa (e irraggiungibile) separazione delle carriere. * * * La politica e il silenzio sul ‘92 In privato, non c’è quasi nessuno, anche a sinistra, che non ne riconosca la decenza, prima ancora che la coerenza con la deontologia della democrazia liberale. In pubblico, però, è sempre stata tutta un’altra musica. Oggi, i diessini si trovano a vivere sulla propria pelle le conseguenze delle loro scelte passate. Devono difendersi e c’è un solo modo per farlo: usare le parole e gli argomenti che tutti gli altri hanno sempre usato per difendersi. Si trovano così, spiacevolmente, in contraddizione con se stessi. E’la consapevolezza dell’esistenza di questa contraddizione, probabilmente, a spiegare anche certi attacchi alla stampa. Non avendo ancora maturato un cambiamento di linea - e non potendo comunque farlo nel bel mezzo di una bufera giudiziaria - sulla questione che davvero conta (i rapporti fra potere giudiziario e potere rappresentativo), devono trovarsi un capro espiatorio. Esistono, in politica, come nella vita in generale, due tipi di convenienze: a breve termine e a lungo termine. Talvolta essi entrano in conflitto. I diessini stanno oggi sperimentando gli effetti di quel conflitto.
«Corriere della sera» del 28 luglio 2007
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