F. Belletti – P Boffi – A. Pennati, Convivenze all’italiana. Motivazioni, caratteristiche e vita quotidiana delle coppie di fatto in un’indagine nazionale, Edizioni Paoline 2007, pp. 172, € 11,00 (ISBN 88-315-3268-6)
Una fetta ancora esigua di popolazione, in massima parte non interessata alla regolamentazione giuridica della propria convivenza. È un importante contributo di chiarezza e di realismo la ricerca che il Centro internazionale studi famiglia (Cisf) manda in questi giorni alle stampe. "Convivenze all'italiana" - di cui in questa pagina pubblichiamo stralci dell'ultimo capitolo e delle conclusioni - è una indagine qualitativa del fenomeno, ottenuta attraverso indagini in profondità a un campione rappresentativo di conviventi eterosessuali italiani per capirne le motivazioni, le dinamiche interne del rapporto e per verificare se esista nelle intenzioni della coppia un progetto familiare "alternativo". La risposta che la ricerca offre è illuminante: la metà dei conviventi interpellati non è interessata al dibattito in corso sulle regolarizzazione delle unioni di fatto e la grande maggioranza, spiegano i sociologi del Cisf, ha «come obiettivo futuro il matrimonio, intravedendo in questo passaggio il raggiungimento di qualcosa di diverso». Questo aspetto è particolarmente evidente se si analizzano i dati raccolti attraverso le diocesi: la presenza di coppie già conviventi nei corsi di preparazione al matrimonio è "elevata", cioè con percentuali tra il 30 e il 60 per cento, in quasi una diocesi su cinque. Il problema, allora, è riflettere sulla validità dell'istituto matrimonio. La domanda provocatoria posta in conclusione dai tre autori è: «Ha ancora senso proporlo? Le sue caratteristiche di - almeno tendenziale - stabilità, durata, reciprocità, solidarietà, apertura alla procreazione mantengono la loro validità, o la società pensa di poter tranquillamente farne a meno?».
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Il riconoscimento pubblico delle convivenze attraverso una regolamentazione dei diritti delle persone è attualmente uno degli argomenti più dibattuti a livello politico. Per conoscere direttamente il parere degli interessati è stato chiesto agli intervistati di esprimere la propria valutazione personale circa il divario giuridico esistente oggi tra matrimonio e convivenza: è giusto, secondo loro, equiparare le due situazioni? Quasi la metà dice di non conoscere la materia in quanto non interessati a una eventuale istituzionalizzazione del proprio legame, dimostrando però in tal modo di non conoscere neppure i diritti di cui già ora, nella situazione di convivenza, sono portatori.
«Non sappiamo bene quali diritti e doveri comporti un matrimonio civile [rispetto alla convivenza], per cui ci è difficile rispondere».
Due o tre coppie dichiarano di non vedere questo divario perché comunque per la famiglia in quanto tale si fa veramente poco e quindi né le coppie sposate né quelle conviventi possono contare su servizi o politiche a loro favore. Una coppia (di conviventi, ndr) sostiene che non si debbano riconoscere alle coppie di fatto gli stessi diritti delle coppie coniugate senza pretendere che si assumano anche i rispettivi doveri. Ciò sarebbe profondamente ingiusto, innanzitutto verso coloro che hanno scelto la convivenza proprio perché non vogliono avere gli stessi diritti e doveri dei coniugi e poi anche verso coloro che "usufruiscono" delle possibilità che scaturiscono dal matrimonio (ad esempio l'adozione) impegnandosi nel contempo a osservarne i relativi doveri.
«Se si danno gli stessi diritti a una coppia che convive semplicemente, il rischio è che per molte coppie diventi solo un fattore di comodo per avere gli stessi diritti di chi sposa senza però avere doveri. Io farei una distinzione tra matrimonio (religioso e civile) o convivenza».
La maggioranza delle coppie ritiene comunque giusto che vi sia questo divario, soprattutto perché il matrimonio viene percepito come un passaggio ulteriore, che comporta anche responsabilità diverse: la convivenza è spesso in vista del matrimonio e dunque non va tutelata allo stesso modo; viceversa potrebbe diventare, per alcuni, un incentivo a non sposarsi. L'opportunità del divario giuridico tra matrimonio e convivenza è sostenuta anche da coloro che vedono queste due forme di legame come due cose differenti e il fondamento della giustizia è trattare da uguale ciò che è uguale e da diverso ciò che è diverso. Come è stato opportunamente affermato, la "famiglia di fatto" non è quella a cui il diritto non riconosce rilevanza, bensì quella che per libera decisione disconosce la rilevanza del diritto. Le unioni di fatto scaturiscono da comportamenti privati e su questo piano dovrebbero restare; dunque, fin dove è possibile, lo Stato deve evitare di intromettersi in tale scelta perché per tutelare i membri deboli c'è già il diritto civile.
«Ritengo giuste le differenze tra sposati e non, perché chi si sposa, oltre allo stare insieme, riconosce lo Stato o la Chiesa e quindi giustamente sono riconosciuti a loro volta».
Sul fronte del "no" (non riteniamo giusto che vi sia questo divario) troviamo circa un quarto degli intervistati, che sostengono di ritenersi come sposati, o meglio di sentirsi come sposati: la differenza sta ovviamente nel non aver contratto matrimonio pur avendone la possibilità e questo ha una forte rilevanza giuridica, anche se queste coppie non avvertono la portata di tale distinzione.
«Non è affatto giusto, perché noi "ci sentiamo sposati" e quindi non vediamo perché non dobbiamo avere gli stessi diritti».
La differenza tra famiglia di fatto e famiglia legale è posta dal matrimonio, atto giuridico solenne e formalizzato da cui discendono i diritti e i doveri codificati dal legislatore. Col matrimonio l'autonomia privata è compressa in modo tale che la volontà dei singoli non possa costituire, modificare, estinguere dei diritti che l'esigenza di stabilità della vita coniugale e l'essenzialità degli interessi in essa tutelati rendono indisponibili.
Se la regolamentazione a livello giuridico pare talvolta ancora confusa e incerta, le rimanenti coppie intervistate hanno invece idee molto chiare in proposito: i diritti vanno assicurati solo alle coppie che dimostrano di essere tali, dando prova sul campo della loro volontà di costruire insieme qualcosa di significativo. Restano dunque escluse da questa prospettiva (secondo alcuni) non solo le coppie "in prova", ma tutti quelli che iniziano una vita di coppia, compresi gli sposati, perché è solo nel corso degli anni che il progetto a lungo termine portato avanti dalla coppia stessa acquisisce forma e visibilità. L'opportunità o meno delle differenze giuridiche non dipende quindi, secondo queste persone, dal tipo di legame, bensì dai tempi della coppia.
«Nel nostro caso siamo insieme da tanti anni e sappiamo cosa stiamo facendo, magari è diverso per quelle coppie molto giovani che convivono e non si sa se questa convivenza avrà un seguito. Come fa lo Stato a tutelare una coppia di conviventi molto giovani e che magari dopo un anno si mollano?».
CONCLUSIONI
Se la domanda fondamentale che incombe su questa ricerca - e che immaginiamo il lettore si sia posto e continui a porsi - può a ben ragione essere identificata con «Qual è il motivo o quali sono i motivi che spingono una coppia a decidere di convivere?», dalla descrizione dei percorsi di vita delle coppie conviventi intervistate ci pare che emerga (accanto a un piccolo nucleo decisamente e ideologicamente contrario al matrimonio, che viene rifiutato proprio in quanto istituzione) una risposta apparentemente banale, oseremmo dire "inevitabilmente banale": principalmente perché non vi sono buoni motivi per non farlo.
Non sembri semplicistico o riduttivo: in realtà, ci pare che questa sia una dinamica subdola ma assai potente, che determina molti dei comportamenti della nostra società. Una volta cessato lo stigma sociale sulla convivenza, una volta superata culturalmente la concezione che solo il matrimonio sia il luogo sociale che legittima l'esercizio della sessualità (e della procreazione), non sono state elaborate risposte diverse ai perché e alle ragioni della vita a due: molto più semplicemente, si è cessato di porsi le domande, di indagare le dinamiche antropologiche e sociali che vi soggiacciono, di chiedersi quali siano i valori in gioco.
È una sorta di inerzia che prevale, un "ritrovarsi così" senza essersi posti molti perché, senza aver preso decisioni drastiche o posizioni nette: qualche studioso americano parla di effetto sliding versus deciding, cioè uno "scivolare lentamente", un "ritrovarsi dentro" (come per l'effetto di un piano inclinato) contrapposto a una decisione pienamente tale, valutata e ponderata in tutte le sue implicazioni.
La vera sfida
Quali conseguenze di carattere sociale o politico trarre da queste considerazioni? Se lo scopo della ricerca non era di presentare un profilo statistico complessivo delle coppie conviventi oggi in Italia bensì conoscerne meglio il vissuto, ancor meno era di entrare nel merito o di prendere posizione nel dibattito relativo alla loro regolamentazione. Nello stesso tempo, ci sembra che il rapporto contenuto in queste pagine possa essere di una qualche utilità a chi intende farsi un'idea un po' meno approssimativa di quelle normalmente in corso sulla natura, la qualità, la realtà interna delle convivenze. È davvero paradossale, ed anche alquanto deprimente, dover assistere a un dibattito, tra l'altro dai toni estremamente esasperati, che prescinde pressoché completamente dalla realtà, sia quantitativa che qualitativa, del fenomeno di cui pretende occuparsi.
Chi ha avuto la pazienza di percorrere queste pagine si sarà reso conto che tutto si può dire sul fenomeno delle convivenze (perlomeno di quelle eterosessuali, che erano l'oggetto della nostra indagine), salvo che ci si trovi davanti a un'emergenza sociale. La categoria delle discriminazioni è semplicemente ridicola, se applicata alla realtà che emerge dalla ricerca, in quanto i protagonisti di questa scelta sono ben coscienti della possibilità pressoché immediate di porvi fine semplicemente sposandosi: e lo dichiarano candidamente.
Il vero problema è invece di carattere valoriale, e attiene alla sfera della validità o meno dell'istituzione matrimonio, come struttura fondamentale di regolazione dei rapporti tra i sessi - e conseguentemente tra le generazioni - nella nostra società. Ha ancora senso proporlo? Le sue caratteristiche di - almeno tendenziale - stabilità, durata, reciprocità, solidarietà, apertura alla procreazione mantengono la loro validità, o la società pensa di poter tranquillamente farne a meno?
Questa è la vera sfida che si profila, a cui la società civile, le istituzioni statali e ogni agenzia educativa - tra cui le famiglie stesse - sono chiamate a rispondere, ciascuno nel proprio ambito. Cercando, se possibile, di non ignorare la realtà, e di porsi nell'ottica della costruzione del bene comune, piuttosto che della somma dei singoli egoismi.
«Avvenire» di 22 giugno 2007
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