di Giorgio Ferrari
L'illusione di un provvidenziale anonimato era già tramontata verso la fine degli anni Ottanta, quanto il crescente utilizzo delle carte di credito aveva trasformato i cittadini di tutto il mondo in una massa di consumatori eternamente rintracciabili, ovunque si trovassero, proprio grazie ai riscontri delle spese effettuate. Ma chi prefigurava - in ossequio all'orwelliano Grande fratello (vi dice niente?) - che di lì a poco la Terra si sarebbe gradualmente trasformata in uno sterminato pollaio dove non solo gli spostamenti, ma addirittura i gusti, le preferenze, i sospiri, le utopie, le illusioni di ciascuno di noi sarebbero stati impietosamente scrutinati e controllati non è andato molto lontano dal vero.
È di ieri la relazione annuale del presidente dell'Autorità garante per la privacy Francesco Pizzetti. Una ricognizione allarmante, molto allarmante, che pone seri dubbi e molti quesiti su questa nostra cosiddetta civiltà della trasparenza, dove l'accesso a enormi quantità di dati personali si trasforma molto spesso in un'arma di pressione, di ricatto o peggio ancora di offesa vera e propria nei confronti dell'inviolabile singolarità di ciascun individuo.
Non occorre ricordare le recenti vicende di quella centrale occulta nascosta all'interno della Telecom che spiava e catalogava ogni aspetto della vita privata di decine di persone, uomini e donne illustri ed anche cittadini comuni. Così come è superfluo riandare con la memoria alle tante violazioni della privacy perpetrate con la scusa (molto flebile, per la verità) del diritto al gossip e a guardare dal buco della serratura in nome di un malinteso senso della libertà di stampa.
Ma ciò che maggiormente preoccupa il garante è quella «sindrome bulimica per la raccolta e l'archiviazione dei dati personali, che rischia di trasformare anche l'Unione europea in un universo di controllati e di spiati».
Due sono a nostro avviso le circostanze che hanno concorso a disegnare una situazione come quella attua le: la relativa facilità di utilizzo dei mezzi di comunicazione - sempre più rapidi e sofisticati e pressocché alla portata di tutti, e si è visto che uso ne hanno fatto i malintenzionati - e la sindrome mondiale che l'11 settembre 2001 ha provocato, inducendo anche le democrazie più longeve e sperimentate come ad esempio quella britannica o americana a rinunciare alla propria tradizionale tolleranza (un tempo non esisteva né in Gran Bretagna né negli Stati Uniti nemmeno la carta d'identità) ricorrendo a controlli e monitoraggi costanti ormai perfino agli angoli delle strade: l'esatto contrario di quella privacy tanto declamata ed esaltata come una delle conquiste più lungimiranti della civiltà occidentale.
Sulla cresta sottile che separa la necessità della riservatezza personale e l'obbligo di contrastare i fenomeni criminosi a cominciare dal terrorismo si è insinuata questa sorta di sottocultura del controllo ossessivo, fatta di dossier, elenchi, registri, dati incrociati, estrapolazioni, non sempre rispondenti a fini nobili. Chiamiamola pure una malattia della modernità, ma rendiamoci conto che una cura la dovremo trovare. Prima che sia davvero tardi.
È di ieri la relazione annuale del presidente dell'Autorità garante per la privacy Francesco Pizzetti. Una ricognizione allarmante, molto allarmante, che pone seri dubbi e molti quesiti su questa nostra cosiddetta civiltà della trasparenza, dove l'accesso a enormi quantità di dati personali si trasforma molto spesso in un'arma di pressione, di ricatto o peggio ancora di offesa vera e propria nei confronti dell'inviolabile singolarità di ciascun individuo.
Non occorre ricordare le recenti vicende di quella centrale occulta nascosta all'interno della Telecom che spiava e catalogava ogni aspetto della vita privata di decine di persone, uomini e donne illustri ed anche cittadini comuni. Così come è superfluo riandare con la memoria alle tante violazioni della privacy perpetrate con la scusa (molto flebile, per la verità) del diritto al gossip e a guardare dal buco della serratura in nome di un malinteso senso della libertà di stampa.
Ma ciò che maggiormente preoccupa il garante è quella «sindrome bulimica per la raccolta e l'archiviazione dei dati personali, che rischia di trasformare anche l'Unione europea in un universo di controllati e di spiati».
Due sono a nostro avviso le circostanze che hanno concorso a disegnare una situazione come quella attua le: la relativa facilità di utilizzo dei mezzi di comunicazione - sempre più rapidi e sofisticati e pressocché alla portata di tutti, e si è visto che uso ne hanno fatto i malintenzionati - e la sindrome mondiale che l'11 settembre 2001 ha provocato, inducendo anche le democrazie più longeve e sperimentate come ad esempio quella britannica o americana a rinunciare alla propria tradizionale tolleranza (un tempo non esisteva né in Gran Bretagna né negli Stati Uniti nemmeno la carta d'identità) ricorrendo a controlli e monitoraggi costanti ormai perfino agli angoli delle strade: l'esatto contrario di quella privacy tanto declamata ed esaltata come una delle conquiste più lungimiranti della civiltà occidentale.
Sulla cresta sottile che separa la necessità della riservatezza personale e l'obbligo di contrastare i fenomeni criminosi a cominciare dal terrorismo si è insinuata questa sorta di sottocultura del controllo ossessivo, fatta di dossier, elenchi, registri, dati incrociati, estrapolazioni, non sempre rispondenti a fini nobili. Chiamiamola pure una malattia della modernità, ma rendiamoci conto che una cura la dovremo trovare. Prima che sia davvero tardi.
«Avvenire» del 13 luglio 2007
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