21 luglio 2007

Il Principe e Pascal

A cinquant’anni dalla morte del padre del «Gattopardo», un ritratto spiega il suo disincanto: nel trionfo della morte, la ricerca della fede
di Vincenzo Arnone e Franco Gabici
Le rivelazioni spirituali: la badessa e i «Pensieri» del filosofo francese
Cinquant’anni fa, il 23 luglio 1957, moriva a Roma Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore de Il Gattopardo. Attorno alla sua figura e al suo romanzo si creò, e giustamente, nel giro di pochi anni, un alone di leggenda letteraria e di aneddotica che mise ancora di più in luce il valore del romanzo che rimane, ad oggi, uno dei più validi del Novecento italiano. Ma sono varie le sfaccettature sotto cui può essere letta tutta l’opera del grande scrittore palermitano; intanto non solo Il Gattopardo, ma anche i Racconti, Lezioni su Stendhal e, ultimamente, un epistolario 1925-30, Viaggio in Europa, che poco aggiunge al Tomasi già conosciuto. Sfaccettature che vanno da quelle strettamente letterarie, a quelle storiche, culturali, di costume, siciliane, religiose; tutte insieme costruiscono la personalità di Tomasi di Lampedusa: nobile nel casato, nello stile e laico nel sentire religioso.
La dimensione del sacro, nel romanzo, sta come sullo sfondo, come un dato storico di cui lo scrittore prende atto; vive al di fuori dell’animo del Tomasi che il più delle volte guarda distaccato e sornione (si pensi al celebre attacco della recita del rosario, peraltro, letterariamente, bellissimo). Lo stesso si dica dei Racconti in cui lo scrittore rievoca, principalmente, i luoghi della sua prima infanzia, come la chiesa, il teatro e il palazzo di Santa Margherita Belice. «Il romanzo indubbiamente registra – osserva Gioacchino Lanza Tomasi – la contrapposizione fra laici e credenti nei suoi aspetti meno esaltanti, la rapacità connota soprattutto il campo liberale, l’ottusità quello ecclesiastico, ma al tempo stesso nel protagonista e in incidentali commenti sul destino ultimo si avverte anche tutta una problematica della questione; la presenza di Dio non soltanto è difficilmente avvertibile, ma è anche eminentemente instabile». E un attento criti co come Geno Pampaloni aveva osservato a suo tempo, nel 1986: «Un cattolico potrà scorgere nella sconsolata "fine di tutto" la messe attossicata di un mondo senza fede. Tuttavia c’è anche qualche cosa di più: al di là di ogni contenuto politico sociale o istituzionale, nel termine "liberazione" come l’Europa migliore lo ha interpretato e vissuto, c’è anche prepotente una luce di carità, l’appuntamento e l’impegno che ogni generazione prende, istintivamente, e collettivamente, verso una somma di valori spirituali in cui riconoscersi e realizzarsi. Questo appuntamento, possiamo dirlo, per la nostra generazione è fallito. Esplicitamente o no, è ancora al vuoto di questa crisi che Tomasi volge, dal fondo della sua solitaria esperienza, il suo disincanto».
Il senso del sacro si può trovare forse nella vita di Tomasi di Lampedusa, in quella sua grande passione per Pascal e i suoi Pensieri, in quel suo credere che la ragione non può esaurire la comprensione della realtà, nella ricerca della fede sulla scia dei suoi due antenati santi: san Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la venerabile suor Maria Crocifissa, vissuti nella seconda metà del Seicento; nella commossa e quasi rivelatoria visita al monastero di Palma di Montechiaro nel 1956, per le parole e la testimonianza di fede di una badessa di grande carisma come suor Maria Enrichetta Fanara. L’incontro, come ricorda il figlio adottivo Gioacchino Lanza Tomasi, scosse fortemente l’animo dello scrittore, a contatto con le antiche testimonianze del monastero e soprattutto con le parole calde e spirituali della badessa. A distanza di cinquant’anni la figura di questo grande scrittore viene consegnata alla storia, pervasa da un pessimismo storico, da una grande cultura e da uno splendore letterario che in mezzo al qualunquismo odierno insegna molto. E ciò non è poco.


Fabrizio Salina e la sfera di Venere

Il protagonista del romanzo era il bisnonno astronomo di Lampedusa: scoprì due pianetini

Il protagonista del Gattopardo non è figura di fantasia. Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, principe di Salina, era infatti il bisnonno di Giuseppe e fu un autodidatta appassionato di astronomia. Nato a Palermo nel 1815, era stato iniziato alla scienza del cielo dal suo precettore padre Foschi e nel 1853 aveva costruito due "osservatori" nelle sue ville di Spaccaforno e di San Lorenzo Colli. L’osservatorio di San Lorenzo era una costruzione a due piani e fu usato dal principe come logo della sua carta intestata. Pietro Tacchini, direttore dell’osservatorio del Collegio Romano, parlando degli osservatori privati nel nostro paese scrisse: «Un altro è a Palermo, e fino a che vivrà il principe di Lampedusa sarà il solo osservatorio privato degno di essere menzionato». Utilizzando una ricca strumentazione, parte della quale è stata acquistata dall’osservatorio di Palermo, il principe «contemplava nel silenzio, non distratto, i moti e le fasi degli astri e non vivea se non per questo». Si legge nel romanzo che il principe «possedeva forti e reali inclinazioni alle matematiche» e che «aveva applicato queste all’astronomia e ne aveva tratto sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private». Sta anche scritto che il principe scoprì due "pianetini" che chiamò Salina e Svelto. Secondo alcune biografie i due oggetti corrisponderebbero a Palma e Lampedusa, ma ciò non è possibile in quanto Palma fu scoperto nel 1893 (Fabrizio era morto nel 1885) e Lampedusa in tempi recenti. E inoltre non esiste nessun documento sulla medaglia d’argento che la Sorbona gli avrebbe consegnato per la scoperta. Al principe fu anche attribuita la scoperta di una cometa che in realtà era già stata osservata. Considerava questi oggetti non «messaggeri di catastrofi», ma prevedere la loro apparizione «era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli». Nel romanzo si ricorda anche il pianeta Venere, definito la «stella del p rincipe»: «Venere brillava, chicco d’uva sbucciato, trasparente e umido, e di già sembrava di udire il rombo del carro solare che saliva l’erta sotto l’orizzonte...». Quando morì, l’Accademia palermitana di cui era socio nella classe "Scienze naturali ed esatte", lo definì «cultore chiarissimo della scienza astronomica». Nel romanzo si registra anche un errore astronomico nella descrizione degli strumenti: «I due telescopi e i tre cannocchiali, accecati dal sole, stavano accucciati buoni buoni, col tappo nero sull’oculare, come bestie ben avvezze che sapessero come il loro pasto vien dato soltanto la sera». La descrizione è molto bella, ma chi è pratico di astronomia sa che il "tappo" non si mette sull’"oculare", ma sull’"obiettivo".
«Avvenire» del 20 luglio 2007

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