Quell'affrancamento dalla marcatura biologica
di Paola Ricci Sindoni
Ancora una volta il corpo della donna e il suo apparato riproduttivo viene fatto oggetto di ingegnose sperimentazioni scientifiche e farmacologiche; l'ipotesi di lavoro suffragata da risultati attendibili - è stata annunciata qualche giorno fa' in Gran Bretagna - risponde ad una logica di tipo matematico: se è stato possibile rendere sterile la donna nel periodo fertile, perché non provare a renderla fertile nel periodo sterile, posponendo la menopausa? La scienza, ancora una volta, sembra votata ad esaudire le più disparate rivendicazioni femministe; la donna, affrancata ormai dal dominio della sua marcatura biologica, può così liberamente progettare la propria vita, spostando a piacimento nel tempo l'arrivo del primo - forse unico - figlio, non prima di essersi assestata in ambito lavorativo. Scopo nobile, si dirà, se queste sono le attuali dinamiche pubbliche, al cui interno il mercato del lavoro richiede braccia fresche, socialmente produttive, salvo rimandare alla sfera privata il posticipo delle proprie aspirazioni alla maternità. C'è da chiedersi al riguardo se la logica della ricerca scientifica non segua invece strade differenti dalla "logica" della vita umana che, segnata dai ritmi temporali "naturalmente" impressi al suo processo evolutivo, si aspetta dalla scienza - secondo il principio bioetico della "beneficenza" - gli aiuti necessari per vivere meglio realizzando le giuste aspettative di maternità, oltre che le giuste attese del nuovo nato, che di certo è ricchezza nella vita privata delle giovani famiglie, ma anche una grande risorsa sociale. Quand'anche fosse provata la piena tolleranza di questo farmaco sia sulla madre, il cui apparato riproduttivo appare ormai sinistramente vicino ad una macchina da smontare e da rimontare, sia sul figlio, esposto ad annidarsi su di un corpo stanco da continue sollecitazioni ormonali, resterebbero ancora aperti alcuni grandi problemi bioetici. Anche quando la libertà, troppo spesso colta come un atto per gestire la propria autonomia e non come apertura all'impegno di accoglienza di una nuova vita, deve fare i conti con le difficoltà oggettive segnate dai movimenti del mercato lavorativo che impongono di rimandare la scelta di mettere al mondo un figlio, occorre chiedersi se e quanto si è provveduto a sostenere il peso necessario, carico di responsabilità, che attiene alla maternità, che dovrebbe ricostituirsi nel suo valore prioritario anche dentro lo stato sociale. Quasi che, questo è il paradosso, non debbano essere più le esigenze affettive delle giovani famiglie a pretendere le assicurazioni sociali per condurre in porto il loro progetto di realizzazione familiare e consegnare alla società un nuovo nato, piuttosto che, come accade oggi, attendere che il mercato del lavoro e le sue inappellabili esigenze pieghino il destino della vita con la complicità della scienza.
«Avvenire» del 28 giugno 2007
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