La «Fondazione Valla» propone una nuova edizione critica dei «trattati», scritti da Guglielmo di Saint-Thierry e da Bernardo di Clairvaux, che ispirarono Dante
di Roberto Mussapi
di Roberto Mussapi
Già nelle Rime di Dante abbiamo una piena anticipazione di quanto accadrà nella Commedia: in versi famosi il poeta si affida totalmente a Beatrice, mettendosi letteralmente nelle sue mani. «Sono nelle tue mani», di memoria evangelica, indica la devozione di chi totalmente si affida a un altro, il Signore, e la donna amata quindi non si sostituisce a Dio, ma ne è messaggera, incantevole entità femminile. Subito, anche nel tremore dei sensi, l’amore per la donna ne rivela un altro, ulteriore, la fonte di ogni innamoramento. Già nelle Rime, ma definitivamente nel Paradiso Alighieri fonde indissolubilmente e magicamente (perché non è una fusione naturale, a occhi realistici) l’amore di Dio e quello tra uomo e donna. È il momento più alto di una cultura, quella prosperata a partire dal XII secolo, interamente pervasa dal tema, dalla realtà, che diviene quasi felicemente ossessiva, dell’amore.
Pensiamo alle leggendarie vicende di Tristano e Isotta, di Lancillotto e Ginevra, nei poemi di Thomas, di Béroul, di Chrétienne de Troyes, pensiamo all’amore travolgente di Abelardo e Eloisa, testimoniato dall’epistolario tra il monaco e l’innamorata, traboccante di erotismo senza freni, di passione incontenibile. Sempre in quell’età fondamentale di passaggio, in quell’infuocato secolo del Medio Evo, nasce la poesia lirica amorosa, che, dopo i fasti dell’età aurea dei greci, Saffo, Alceo, Nosside, e dei latini Catullo, Properzio, Ovidio, si era inaridita ed estinta. Rinasce con i versi dei trovatori, rime d'amore cantate nelle corti.
Chi sono i «trovatori»? Il termine stesso battezza in loro l’essenza della poesia, che non consiste in un’artificiosa creazione dal nulla, ma in un trovare, uno scoprire, con perizia magistrale, similmente alla forma che Michelangelo cercherà e troverà, nascosta, nell’anima del marmo. Col trovatore noi incontriamo la figura del poeta che scopre, che si lancia in un’avventura per trovare, come nel buio di una miniera alla ricerca del diamante o dell’oro...
I trovatori sono tra i primi a scrivere poesie in lingua volgare, vale a dire non in latino, e i primi in assoluto nella storia letteraria d’Europa a costituire una scuola poetica. Nascono in Francia, ma il loro idioma diventa subito una lingua poetica adottata tanto dai Catalani quanto dagli Italiani, diffusa dal Portogallo all’Ungheria, una comune lingua imperniata su raffinatissime e liriche interrogazioni sul tema portante dell’amore.
La lingua dei trovatori, definita «provenzale» dagli italiani, si impone in tutto il mondo romanzo, e con essa il tema dell’amor cortese, amore destinato a sofferenze perché versato a una dama sposata, a un’impossibile coniugazione finale.
Parallela a questa fioritura esplosiva di poesia d’amore, dai romanzi cortesi del ciclo della Tavola Rotonda ai trovatori, da cui nasce la lirica moderna d’Occidente, si svolge in quel secolo una riflessione radicale sull’amore: dalla trattatistica sul modello di Andrea Cappellano, che traduce e propone i modelli erotici di Ovidio, poeta infinito nonché maestro dell’arte amatoria, a quella teologica che si svolge in ambiente monastico, anch’essa incentrata sull’amore e destinata a mutare il pensiero medievale.
L’amore è tema, centro e fuoco della cultura e del pensiero di un secolo, in due canali diversi ma che spesso si intersecano. Il modello di Ovidio, un modello del mondo classico, non è accettabile dai canoni cristiani, ma non può essere escluso dalla riflessione, poiché trattasi sempre di una concezione del mondo incentrata sull'amore.
Gugliemo di Saint-Thierry e Bernardo di Clairvaux, i due autori la cui riflessione sull’amore è presentata ora con consueto rigore in un’edizione della Fondazione Valla (Trattati d'amore cristiani del XII secolo, Mondadori, pagg. 322, euro 27), scrivono pagine straordinarie sulla natura dell’amore, divino, ma, in quanto creatura e dono di dio, onnicomprensivo. Il fuoco dei poeti e il volo dei monaci teologi sono due modi di affrontare la realtà che in quel secolo si afferma sovrana: modi diversi, naturalmente, spesso divergenti ma a volte speculari.
Parole brucianti nei due monaci, che è impossibile non estendere dall’amore verso Dio a quello totale verso la vita: «Desidero amarti e amo desiderarti», scrive Guglielmo. E Bernardo: «La causa per cui si deve amare Dio è Dio stesso, la misura è amore senza misura».
Se questo crescendo mistico nell’amore, verso la sua scaturigine, di fatto riformula o sublima l’amore palpitante e anche carnale dei poeti, il più grande di questi (e non solo di quel tempo) riuscirà a fondere i due amori, quello verso Dio e quello per Beatrice, portando a livelli mai prima e mai più toccati la capacità conoscitiva e rivelante della poesia.
Pensiamo alle leggendarie vicende di Tristano e Isotta, di Lancillotto e Ginevra, nei poemi di Thomas, di Béroul, di Chrétienne de Troyes, pensiamo all’amore travolgente di Abelardo e Eloisa, testimoniato dall’epistolario tra il monaco e l’innamorata, traboccante di erotismo senza freni, di passione incontenibile. Sempre in quell’età fondamentale di passaggio, in quell’infuocato secolo del Medio Evo, nasce la poesia lirica amorosa, che, dopo i fasti dell’età aurea dei greci, Saffo, Alceo, Nosside, e dei latini Catullo, Properzio, Ovidio, si era inaridita ed estinta. Rinasce con i versi dei trovatori, rime d'amore cantate nelle corti.
Chi sono i «trovatori»? Il termine stesso battezza in loro l’essenza della poesia, che non consiste in un’artificiosa creazione dal nulla, ma in un trovare, uno scoprire, con perizia magistrale, similmente alla forma che Michelangelo cercherà e troverà, nascosta, nell’anima del marmo. Col trovatore noi incontriamo la figura del poeta che scopre, che si lancia in un’avventura per trovare, come nel buio di una miniera alla ricerca del diamante o dell’oro...
I trovatori sono tra i primi a scrivere poesie in lingua volgare, vale a dire non in latino, e i primi in assoluto nella storia letteraria d’Europa a costituire una scuola poetica. Nascono in Francia, ma il loro idioma diventa subito una lingua poetica adottata tanto dai Catalani quanto dagli Italiani, diffusa dal Portogallo all’Ungheria, una comune lingua imperniata su raffinatissime e liriche interrogazioni sul tema portante dell’amore.
La lingua dei trovatori, definita «provenzale» dagli italiani, si impone in tutto il mondo romanzo, e con essa il tema dell’amor cortese, amore destinato a sofferenze perché versato a una dama sposata, a un’impossibile coniugazione finale.
Parallela a questa fioritura esplosiva di poesia d’amore, dai romanzi cortesi del ciclo della Tavola Rotonda ai trovatori, da cui nasce la lirica moderna d’Occidente, si svolge in quel secolo una riflessione radicale sull’amore: dalla trattatistica sul modello di Andrea Cappellano, che traduce e propone i modelli erotici di Ovidio, poeta infinito nonché maestro dell’arte amatoria, a quella teologica che si svolge in ambiente monastico, anch’essa incentrata sull’amore e destinata a mutare il pensiero medievale.
L’amore è tema, centro e fuoco della cultura e del pensiero di un secolo, in due canali diversi ma che spesso si intersecano. Il modello di Ovidio, un modello del mondo classico, non è accettabile dai canoni cristiani, ma non può essere escluso dalla riflessione, poiché trattasi sempre di una concezione del mondo incentrata sull'amore.
Gugliemo di Saint-Thierry e Bernardo di Clairvaux, i due autori la cui riflessione sull’amore è presentata ora con consueto rigore in un’edizione della Fondazione Valla (Trattati d'amore cristiani del XII secolo, Mondadori, pagg. 322, euro 27), scrivono pagine straordinarie sulla natura dell’amore, divino, ma, in quanto creatura e dono di dio, onnicomprensivo. Il fuoco dei poeti e il volo dei monaci teologi sono due modi di affrontare la realtà che in quel secolo si afferma sovrana: modi diversi, naturalmente, spesso divergenti ma a volte speculari.
Parole brucianti nei due monaci, che è impossibile non estendere dall’amore verso Dio a quello totale verso la vita: «Desidero amarti e amo desiderarti», scrive Guglielmo. E Bernardo: «La causa per cui si deve amare Dio è Dio stesso, la misura è amore senza misura».
Se questo crescendo mistico nell’amore, verso la sua scaturigine, di fatto riformula o sublima l’amore palpitante e anche carnale dei poeti, il più grande di questi (e non solo di quel tempo) riuscirà a fondere i due amori, quello verso Dio e quello per Beatrice, portando a livelli mai prima e mai più toccati la capacità conoscitiva e rivelante della poesia.
«Il Giornale» del 24 luglio 2007
Articolo correlato: "Quell'amore senza misura"di G. Ravasi del 23 giugno 2007
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