Nel 1968 le ansie improvvise di una generazione travolsero un centrosinistra troppo attento agli equilibri del proporzionale
di Matteo Sacchi
di Matteo Sacchi
L’inizio fu in sordina. Nel gennaio del 1966 si ebbe una prima occupazione nell’Università di Trento, alla facoltà di Scienze sociali. Poi l’onda lunga che veniva dalla Francia, da quelli che oltralpe chiamavano «gli ingrati del benessere francese», investì in pieno i grandi atenei. Iniziò l’Università Cattolica di Milano con una feroce protesta studentesca (dal 15 novembre del ’67 sino al 20 gennaio dell’anno dopo). Seguirono a ruota quasi tutti gli altri atenei, a partire dalle facoltà di architettura. Le prime pagine dei giornali iniziarono a riempirsi di titoloni e di foto con quegli studenti così incongrui, nei loro golfini e giacchette, che facevano a botte con gli agenti di polizia. Chiamandoli «servi dei servi», dimenticandosi che erano quei figli del popolo per cui dicevano di combattere.
Iniziava così quel movimento complesso, e sfaccettatissimo, che ormai siamo abituati a liquidare con una parolina breve breve: «Sessantotto». Un movimento che il sistema politico italiano era poco o nulla adatto ad affrontare. L’esperienza degli esecutivi di centrosinistra iniziata nel febbraio del 1962, con il governo Fanfani, non si era rivelata in grado di fornire una maggiore stabilità al Paese, né di frenare i primi segni di malessere economico e, soprattutto, sociale. Avvisaglie che non erano vera crisi ma pervasiva sensazione di rallentamento, di assuefazione al nuovo tenore di vita, irrequietezza di una gioventù che non voleva essere anello di catena di montaggio.
Una situazione inutilmente denunciata dal segretario della Democrazia cristiana, Mariano Rumor, durante il X congresso del partito, nel novembre del 1967. I partiti di maggioranza erano troppo attenti alle logiche del bilanciamento interno, agli equilibrismi del proporzionale, per riuscire a rispondere agli stimoli, tutti esogeni alle strutture della politica tradizionale, che provenivano dalla società civile.
Anche i partiti di opposizione, tra i quali il ruolo egemone era ampiamente svolto dal Pci, non riuscirono in alcuna maniera a canalizzare adeguatamente le spinte che venivano dal basso. Il vuoto di leadership dopo la morte di Togliatti, avvenuta il 21 aprile 1964, e il seguente contrasto tra le «correnti» (termine che avrebbe fatto rabbrividire in tempi di centralismo democratico) di Giorgio Amendola e di Pietro Ingrao, impedì ad una dirigenza, che aveva le sue radici nello stalinismo e che riusciva al massimo a pensare nei termini di «rinnovamento nella continuità», di capire una protesta che si rifaceva contemporaneamente all’operaismo e all’anti autoritarismo colto di Marcuse. Il partito si vide così scavalcato a sinistra, basti pensare alle Tesi per il comunismo enunciate dai transfughi fondatori del Manifesto: Aldo Natoli, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri e Luciana Castellina.
Così, nonostante il fatto che le proteste squisitamente studentesche, nate con orizzonti limitati, fossero già estenuate e languenti nel giro di pochi mesi, i vertici di quel movimento confluirono in gruppi con occhio attento al conflitto sociale che covava nelle fabbriche: Potere operaio, Avanguardia operaia, Lotta Continua... Iniziava così l’epoca dei Cub (comitati unitari di base), degli scioperi a singhiozzo, l’affermazione del salario come «variabile indipendente dalla produttività». Una mobilitazione spontanea che lasciò spiazzati i sindacati confederali, almeno sin che lo statuto dei lavoratori del 1970 non ne ristabilì l’egemonia, incapaci quanto i partiti di governare il mutamento in corso nel mondo operaio.
Veniva a concretarsi una delle più profonde divaricazioni tra «Paese legale» e «Paese reale» della storia d’Italia. Una stagione in cui il tentativo di riformare le istituzioni, la scuola e il mondo del lavoro, creando uno spazio di politica condivisa, riassunta poi nella formula della «Solidarietà nazionale», giunse con ritardo. Quando gli scontri di piazza, il terrorismo delle Brigate rosse, le bombe e la crisi petrolifera avevano già precipitato il Paese nel gorgo sanguinoso etichettato, a posteriori, con la formula «anni di piombo» e che la stampa di allora definiva con meno vis retorica: «violenza degli opposti estremismi».
Iniziava così quel movimento complesso, e sfaccettatissimo, che ormai siamo abituati a liquidare con una parolina breve breve: «Sessantotto». Un movimento che il sistema politico italiano era poco o nulla adatto ad affrontare. L’esperienza degli esecutivi di centrosinistra iniziata nel febbraio del 1962, con il governo Fanfani, non si era rivelata in grado di fornire una maggiore stabilità al Paese, né di frenare i primi segni di malessere economico e, soprattutto, sociale. Avvisaglie che non erano vera crisi ma pervasiva sensazione di rallentamento, di assuefazione al nuovo tenore di vita, irrequietezza di una gioventù che non voleva essere anello di catena di montaggio.
Una situazione inutilmente denunciata dal segretario della Democrazia cristiana, Mariano Rumor, durante il X congresso del partito, nel novembre del 1967. I partiti di maggioranza erano troppo attenti alle logiche del bilanciamento interno, agli equilibrismi del proporzionale, per riuscire a rispondere agli stimoli, tutti esogeni alle strutture della politica tradizionale, che provenivano dalla società civile.
Anche i partiti di opposizione, tra i quali il ruolo egemone era ampiamente svolto dal Pci, non riuscirono in alcuna maniera a canalizzare adeguatamente le spinte che venivano dal basso. Il vuoto di leadership dopo la morte di Togliatti, avvenuta il 21 aprile 1964, e il seguente contrasto tra le «correnti» (termine che avrebbe fatto rabbrividire in tempi di centralismo democratico) di Giorgio Amendola e di Pietro Ingrao, impedì ad una dirigenza, che aveva le sue radici nello stalinismo e che riusciva al massimo a pensare nei termini di «rinnovamento nella continuità», di capire una protesta che si rifaceva contemporaneamente all’operaismo e all’anti autoritarismo colto di Marcuse. Il partito si vide così scavalcato a sinistra, basti pensare alle Tesi per il comunismo enunciate dai transfughi fondatori del Manifesto: Aldo Natoli, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri e Luciana Castellina.
Così, nonostante il fatto che le proteste squisitamente studentesche, nate con orizzonti limitati, fossero già estenuate e languenti nel giro di pochi mesi, i vertici di quel movimento confluirono in gruppi con occhio attento al conflitto sociale che covava nelle fabbriche: Potere operaio, Avanguardia operaia, Lotta Continua... Iniziava così l’epoca dei Cub (comitati unitari di base), degli scioperi a singhiozzo, l’affermazione del salario come «variabile indipendente dalla produttività». Una mobilitazione spontanea che lasciò spiazzati i sindacati confederali, almeno sin che lo statuto dei lavoratori del 1970 non ne ristabilì l’egemonia, incapaci quanto i partiti di governare il mutamento in corso nel mondo operaio.
Veniva a concretarsi una delle più profonde divaricazioni tra «Paese legale» e «Paese reale» della storia d’Italia. Una stagione in cui il tentativo di riformare le istituzioni, la scuola e il mondo del lavoro, creando uno spazio di politica condivisa, riassunta poi nella formula della «Solidarietà nazionale», giunse con ritardo. Quando gli scontri di piazza, il terrorismo delle Brigate rosse, le bombe e la crisi petrolifera avevano già precipitato il Paese nel gorgo sanguinoso etichettato, a posteriori, con la formula «anni di piombo» e che la stampa di allora definiva con meno vis retorica: «violenza degli opposti estremismi».
«Il Giornale» del 26 luglio 2007
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