17 luglio 2007

Il Barone rampante fa 50

Mezzo secolo fa l'uscita del romanzo fantastico di un giovane Italo Calvino
di Alberto Papuzzi
Cinquant’anni fa, il 28 maggio 1957, Italo Calvino, in un’ironica lettera a Franco Fortini, recriminava sull’epoca buia che il mondo stava attraversando e dichiarava di abbandonarsi «a una totale misantropia», corrispondente alla sua vera natura, quindi gli annunciava l’imminente uscita di un suo nuovo e fantasioso romanzo: «Ho scritto un libro, quello di cui ti parlavo: Il barone rampante in cui forse sono in parte riuscito ad esprimere questi concetti. È venuto un libro bruttissimo, in confidenza, come appunto doveva essere. Te lo manderò, benché tu non mi mandi i tuoi libri di poesie». Qualche settimana dopo, in una lettera datata 8 luglio, così ringraziava il critico Geno Pampaloni, per la recensione del Barone uscita sull’Espresso: «Dire che sono felice del tuo articolo è dir poco. Vedersi compreso, definito in maniera così articolata, integrato in un generale discorso culturale è una soddisfazione che gli scrittori di solito conoscono solo da morti, dopo che sono passate alcune generazioni. Tu me l’hai fatta provare appena uscito il libro, consolandomi in anticipo della generale insipidezza dei recensori».
L’estate 1957 è una stagione decisiva nella vita di Calvino, che all’epoca aveva 34 anni ed era consulente e autore di Giulio Einaudi. Non soltanto pubblica il suo romanzo più celebre e più lungo - tre anni dopo raccolto nel volume I nostri antenati, con Il visconte dimezzato, apparso nel ‘52 nei vittoriniani «Gettoni» e con Il cavaliere inesistente, che Einaudi manda in libreria nel ‘59 -, ma esce ufficialmente dal Pci con una lettera del primo agosto. Invia il testo anche alla direzione dell’Unità, di cui era assiduo collaboratore. La lettera era lunga all’incirca quattro cartelle e cominciava con queste parole: «Cari compagni, devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal Partito». Quindi un moto orgoglioso: «Vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria». Nella produzione di Calvino Il barone rampante è una tappa fondamentale, perché dimostra che la vena fantastica non è un episodio marginale, che sta a lato del coté realistico di libri come La speculazione edilizia o La giornata d’uno scrutatore. Al contrario, il successo del Barone e degli Antenati - e delle Fiabe italiane, l’anno prima - è all’origine del sorprendente filone che si specchia nel Marcovaldo e in Palomar, nelle Città invisibili, nel Castello dei destini incrociati o in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Calvino stesso, d’altronde, citò in un’intervista come suoi modelli Swift e Voltaire, Gogol e Kafka, che fanno capire la realtà ricorrendo ai paradossi dell’invenzione fantastica. Più che fra realismo e fantasia, Calvino si vedeva diviso tra un filone stevensoniano e quello grottesco. Entrambi giovavano per tracciare ritratti, sia pure deformati, della realtà contemporanea, come Calvino spiegò in una postfazione ai Nostri antenati: scrivendo una storia fantastica, si trovava a descrivere la realtà meglio che attraverso i mezzi del neorealismo. Questo ha a che fare con le sue dimissioni dal Pci. La coincidenza dei due fatti - Il barone e le dimissioni - non era del tutto casuale. Dopo la tragedia della rivolta ungherese, Calvino rimane dentro il Pci, ma per dare voce a un aperto dissenso. Già in febbraio aveva pubblicato l’apologo La grande bonaccia delle Antille, satira dell’immobilismo di Togliatti e il segretario gli aveva fatto rispondere da Maurizio Ferrara con La gran caccia nelle Antille, raccontino nello stesso tono. Lo scrittore polemizzava ostinatamente con il responsabile culturale del partito, Mario Alicata: «Siamo sempre le stesse facce di reduci da mille naufragi», gli dice una volta. Quando Di Vittorio, leader della Cgil, si schiera con gli insorti, gli scrive di getto: «Commosso condivido tua posizione». E intanto agita le acque a Torino, nella redazione dell’Unità e in quella di Einaudi, diffondendo un Appello ai comunisti contro le posizioni togliattiane. «Ho rinnovato la tessera del ‘57 manifestando un dissenso - si legge nella lettera di dimissioni dal partito -; questo dissenso non si è affatto attenuato col passare dei mesi, tanto che mi sono astenuto da ogni attività». Spiega che sperava in un rinnovamento della linea, o almeno in un diritto di cittadinanza per i dissenzienti, invece constata «la sprezzante stroncatura» di Antonio Giolitti. Fatto che gli toglie «ogni residua speranza».
Alla fine di quell’estate decisiva, Calvino ritorna alla vena realistica con il romanzo breve La speculazione edilizia (fallimento d’un intellettuale che si fa affarista). Poi le lettere documentano rapporti per libri einaudiani con Leonardo Sciascia e con Romano Bilenchi, il lavoro ha il sopravvento. Circa i comunisti, scrive a Paolo Spriano, lo storico del Pci, di essere contento di essersi dimesso senza una rottura completa: «Conto di proseguire - gli confida - il mio dialogo col partito». Invece è costretto a un aspro confronto con Togliatti, che al Comitato centrale ha parlato del letterato che «appena uscito dal Partito ha scritto la novelletta per buttar fango, agli ordini dei giornali della borghesia, sopra il Partito e i suoi dirigenti per accrescere la confusione, la sfiducia e il disfattismo». Il 3 ottobre Calvino scrive una dura lettera: «Caro Togliatti, alcuni malevoli pretendono che tu ti riferissi a me...». E lo invita a fare il possibile per dissipare i pettegolezzi. Togliatti risponderà, con altrettanta durezza, di aver voluto dipingere un tipo di intellettuale: «Se in questo tipo rientri, in qualche misura e per qualche cosa, anche tu, è questione di fatto di minore interesse. Certo vi rientra in pieno la lettera con la quale tu hai dato le dimissioni dal Partito». E pensare che Calvino, in uno sfogo con Spriano, l’aveva definita «una lettera d’amore».
«La Stampa» dell’8 luglio 2007

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