Niccolò Ammaniti è un ingenuo quando chiede ai recensori «vere analisi del testo»
di Paolo Di Stefano
Il Piccolo Fratello ha seguito con apprensione le polemiche su e di Niccolò Ammaniti dopo lo Strega. Ed è rimasto colpito soprattutto dalle battute di quest’ultimo sulla critica. Diceva Ammaniti, intervistato da Cristina Taglietti sul Corriere: «Le critiche positive mi fanno piacere, soddisfano il mio ego, per le stroncature tendo a rimanerci male. E quasi mai sono d’accordo». Il che va in parte a suo onore: se fosse d’accordo con le stroncature non avrebbe pubblicato il libro che ha pubblicato. Idem se non concordasse con gli elogi. Qual è quell’autore che di fronte a un elogio trovi da eccepire: «Sì, è vero, sono stato bravo, però ». Però c’è un limite. C’è un limite all’autocompiacimento. E c’è un limite alla consapevolezza dei propri mezzi. Il primo rischia di diventare narcisismo, la seconda megalomania o arroganza. Che diventano vizi insopportabili quando si fanno forti del consenso popolare. Ammaniti gode di molto consenso, le sue storie sgradevoli piacciono moltissimo al pubblico. Il Grande Fratello Mercato lo ha adottato. Quando dice che preferisce le critiche dei lettori comuni in rete a quelle dei critici professionali, usa argomenti populistici che non sono degni della sua intelligenza. E quando afferma: «Mi piacerebbe che ci fosse lo spazio per spiegare, per fare delle vere analisi del testo, dei personaggi» lascia di stucco per l’ingenuità. Ma come, lo scrittore che viaggia nella contemporaneità, tra fumetti splatter e tv, tra pubblicità e videogame, ignora (o finge di ignorare) che cos’è oggi una recensione di giornale. Oppure pretende che i giornali facciano un’eccezione per i suoi libri: e cioè che gli dedichino non una semplice recensione ma lunghi saggi critici, «vere analisi del testo» (e dei personaggi!). Dunque, non Guglielmi ma Erich Auerbach, non Pacchiano ma Leo Spitzer, non Concita De Gregorio ma Gianfranco Contini. Più analisi del testo, please! Più strutturaliiiiiiismoooooo e più stilistiiiiiiiicaaaaaa, cazzooooo, direbbero i suoi personaggi. Diceva giustamente Luigi Malerba in un suo vecchio saggio in cui divideva i critici in caproni dialettici e in pecore dogmatiche: «L’intervento della critica consente a uno scrittore di farsi arbitro di se stesso, di osservare vantaggiosamente i propri libri con distacco, dal di fuori, come se si trattasse di una "cosa" estranea». Non è il caso di Ammaniti, che ha avuto recensioni (certo, non «vere analisi del testo») da fare invidia ai suoi colleghi del passato e del presente. A cominciare da una copertina sul Venerdì di Repubblica con intervista della De Gregorio. Per continuare con Ranieri Polese sul Corriere da Francoforte, Corrado Augias a piena pagina sulla Repubblica, Furio Colombo sull’Unità, Elisabetta Mondello su Liberazione, Antonio D’Orrico sul Magazine, Fabrizio Ottaviani sul Giornale, Lorenzo Mondo su Tuttolibri, Paolo Perazzolo su Famiglia Cristiana, Manuela Grassi su Panorama, Andrea Cortellessa sulla Stampa, Angelo Guglielmi ancora sull’Unità, Giovanni Pacchiano sul Sole 24 Ore. E poi, sempre sul Corriere, Renato Barilli e Giulio Ferroni. Tutte molto estese, per lo più ampiamente positive; alcune, ahimè, stroncatorie. Certamente Ammaniti non era d’accordo con le critiche di Ottaviani, Cortellessa, Guglielmi, Pacchiano, Ferroni, perché parlavano, avvalendosi di serie motivazioni, chi di un «compito ordinato di ragioneria», chi di «una collezione di buoni sentimenti», chi di «indifferente ovvietà», chi di «effetto dimostrativo», chi di «romanzo da funzionario editoriale». Ma lasciando stare i casi particolari, lo scrittore non riesce proprio a essere contento in generale: «Quasi sempre - dice - sono boxettini che raccontano la trama e poi nelle ultime righe si dà un giudizio sintetico, senza approfondimenti». Insomma, poco, troppo poco, che sia davvero come Ammaniti comanda.
«Corriere della sera» del 24 luglio 2007
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