Le studiose Pellicciari e Riall a confronto sul protagonista del Risorgimento
di Antonio Carioti
L’accusa: aspirante dittatore. La difesa: paladino della libertà
Altro che quote rosa. Nel processo a Garibaldi organizzato in Romagna il 10 agosto, le donne avranno un ruolo da assolute protagoniste. A sostenere le parti dell’accusa e della difesa saranno infatti due studiose, rispettivamente Angela Pellicciari e Lucy Riall. Al centro della contesa sarà la spedizione dei Mille, che nel 1860 portò all’annessione del Sud al regno sabaudo. Su quella vicenda la Pellicciari nel 2003 ha scritto un libro, I panni sporchi dei Mille (Liberal libri), di cui ora rilancia le tesi: «Non sono io, ma tre illustri rappresentanti del liberalismo risorgimentale, Giuseppe La Farina, l’ammiraglio Carlo Persano e Pier Carlo Boggio, a dare della spedizione dei Mille un quadro ben diverso da quello mitico tuttora in auge. La Farina fu, insieme a Cavour, il vero organizzatore dell’impresa, fornì i mezzi e le armi a Garibaldi, che era molto esitante. Persano provvide a corrompere gli ufficiali borbonici con fondi messi a disposizione da banchieri amici di Cavour. Quindi l’impresa dei Mille non ebbe nulla di spontaneo né di glorioso». Dissente Lucy Riall, docente all’Università di Londra e autrice del recente saggio Garibaldi. L’invenzione di un eroe, edito da Laterza: «La Farina e Boggio, proprio in quanto uomini di Cavour, erano avversari politici delle camicie rosse e non si possono considerare fonti imparziali. Dai documenti risulta che il governo di Torino non organizzò, ma subì la spedizione, che Cavour considerava molto pericolosa. Poi, quando vide che i Mille avevano successo, intervenne per controllare la situazione e limitare i danni. La Farina era un ex mazziniano dalla posizione ambigua, tanto che Garibaldi lo cacciò dalla Sicilia: logico che avesse il dente avvelenato contro di lui». Il fatto è, insiste la Pellicciari, che il generale nizzardo si comportava da despota: «In Sicilia La Farina denuncia una situazione gravissima di malversazioni, confusione e arbitrio. Altrettanto duro è Boggio, secondo il quale sotto Garibaldi, che si era proclamato dittatore del Sud, tutte le libertà erano ridotte a semplici finzioni». La Riall smentisce: «La dittatura di Garibaldi durò solo tre mesi: era una soluzione d’emergenza legata allo stato di guerra e non aveva nulla a che fare con i regimi totalitari. E poi basta vedere i giornali che si pubblicavano all’epoca in Sicilia per constatare che vi era una larga libertà di stampa, senza alcuna censura». Ma chi erano le camicie rosse? Secondo la Pellicciari, lo stesso Garibaldi non aveva alcuna stima dei suoi volontari: «In un passo citato da Aldo Mola nella sua Storia della massoneria italiana, li definì gente di origine pessima, tratta dalla malavita. E molti altri testi dipingono i garibaldini come infima plebe, prontissima ad ogni misfatto, che seminava il terrore ovunque andasse». Giudizi che la Riall ridimensiona: «Non tutti i volontari si comportarono bene, durante la spedizione dei Mille. Per esempio alcuni giovani giunti dall’Inghilterra si dimostrarono più propensi all’ubriachezza molesta che al combattimento. Ma i garibaldini provenienti dalle città del Nord Italia erano perlopiù studenti, professionisti, scrittori, non certo feccia. Riesumare oggi i temi della propaganda clericale antigaribaldina non ha molto senso». La Pellicciari attacca poi l’immagine di Garibaldi come eroe disinteressato: «In un primo tempo rifiutò la rendita annua di centomila lire offertagli dal governo, dicendo che quel denaro sarebbe stato per lui come una mortale camicia di Nesso. Ma poi finì per accettare, smentendo clamorosamente ciò che aveva detto in precedenza». La Riall ammette che il generale cambiò idea, ma aggiunge: «Siamo nel 1875: Garibaldi era anziano, malato e senza un soldo, con dei figli piccoli da mantenere. Il fatto che abbia dovuto accettare la rendita dimostra che non si era arricchito con le sue imprese. Del resto ciò non lo indusse ad attenuare la critica costante alla classe dirigente liberale e l’appoggio convinto alle forze democratiche». Infine il giudizio generale sul Risorgimento. La Pellicciari è severa: «L’unità d’Italia si fece in modo sbagliato. Soprattutto il Sud venne ridotto in condizioni penose, mentre sotto i Borboni la situazione era di gran lunga migliore. Anche per colpa di Garibaldi fu instaurato un regime repressivo, sotto il quale la maggioranza della popolazione perse ogni libertà». Diversa la valutazione della Riall: «Il regno delle Due Sicilie non era il concentrato di barbarie descritto dalla propaganda patriottica, ma neppure un’isola felice. Le finanze erano in bancarotta, le libertà erano negate, la repressione violenta. In realtà nel biennio 1859-60 si assiste al collasso di tutti i vecchi Stati preunitari: una crisi irreversibile, risolta con la creazione del nuovo regno. È una vicenda complessa, che le opposte retoriche non aiutano a capire».
Il dibattimento sarà il 10 agosto. Continua la tradizione di San Mauro Pascoli. Anche quest’anno il centro romagnolo, paese natale del poeta, ospita nella serata del 10 agosto (anniversario dell’assassinio del padre di Pascoli) un processo simbolico. Dopo il Passatore, Mussolini, Mazzini, il ruolo di imputato, a 200 anni dalla nascita, tocca a Giuseppe Garibaldi. La manifestazione, organizzata dal comune di San Mauro e dall’associazione Sammauroindustria, vedrà Angela Pellicciari nelle vesti di accusatrice e Lucy Riall come avvocato difensore. Parteciperanno anche due autorevoli storici nel ruolo di testimoni: Ernesto Galli della Loggia a carico e Roberto Balzani a discarico di Garibaldi.
«Corriere della sera» del 25 luglio 2007
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