Contraddizioni sulla legge Biagi
di Francesco Riccardi
Il cortocircuito sul lavoro, alla fine, si è prodotto. E ha mandato in crisi non solo i legami all'interno della maggioranza, ma anche tra il governo e la Cgil. Da settembre, annuncia il leader Guglielmo Epifani, il rapporto con l'esecutivo muterà: «sarà forte e serrato», come dire conflittuale, anziché amichevole.
Un cambio brusco, nelle intenzioni, se si ripensa a quella sorta di "giuramento di fedeltà" all'esecutivo di centrosinistra, che fu stretto al congresso Cgil nel 2006. Per «riprogettare il Paese» con un patto dei «tremila giorni», lungo non una ma due legislature, dichiarò allora Guglielmo Epifani, presente Romano Prodi. Cosa di tanto grave, allora, costringe oggi il leader della Cgil a minacciare un cambio così profondo di atteggiamento? Solo lo "sgarbo" di una nota cambiata sul verbale d'intesa? In realtà, ciò che pesa veramente per la confederazione di Corso d'Italia è che i contenuti del protocollo firmato - seppure solo per «senso di responsabilità» - contraddicono l'intera strategia politica della stessa confederazione dal 2000 a oggi. È come se la Cgil siglando l'intesa, e approvandola a maggioranza nel suo direttivo, avesse ammesso: "Compagni, da quasi un decennio abbiamo sbagliato tutto, opponendoci a provvedimenti che invece erano positivi".
Per comprenderlo sono sufficienti due esempi. Il primo è quello dei contratti a termine, sul quale si determinò il primo accordo separato dopo un decennio di unità sindacale. La Cgil, infatti, nel 2001 non volle firmare l'avviso comune di sindacati e imprese, trasformato poi in decreto dal neonato governo Berlusconi. Riteneva che la liberalizzazione fosse troppo ampia. In particolare riguardo alle causali in base alle quali è possibile stringere contratti a tempo determinato. Oggi, per questo strumento, nel protocollo non è prevista l'introduzione di particolari causali, ma solo misure (ragionevoli e auspicabili) per contrastare la reiterazione all'infinito dei contratti temporanei.
Il secondo esempio, a ncora più clamoroso, è la legge Biagi. Osteggiata a suo tempo in maniera addirittura feroce, con tre scioperi generali, oggi viene confermata nel suo impianto. Sempre nel protocollo siglato da governo e parti sociali, infatti, della legge Biagi vengono cancellati appena 9 articoli (il 14 e dal 33 al 40) su 86 complessivi, si prevede un successivo esame di altri, si auspicano alcune modifiche e integrazioni. Si diceva (e non era vero) che la Biagi avesse introdotto 43 figure contrattuali, eppure se ne cancella solo una (il lavoro a chiamata), si discute sul futuro di un'altra (lo staff leasing) e si prevede qualche ritocco ad altre 3, confermandone così l'utilità. Nel frattempo, nello stesso protocollo, si loda l'apertura del mercato ai tanti soggetti privati e l'efficacia dell'integrazione tra servizi pubblici e privati. Si prende atto cioè della realtà: quella legge, assieme agli altri provvedimenti di flessibilizzazione, ha reso possibile la forte crescita dell'occupazione negli ultimi anni e aveva necessità semplicemente di essere ritoccata, in parte corretta e soprattutto completata. Il tutto, sancito ora con tanto di firma della Cgil. Ma la Biagi non era, negli slogan di quel sindacato, la "madre di tutte le precarizzazioni"? Non era la legge che avrebbe "bruciato un'intera generazione"?
Non basta, a sanare una contraddizione così forte, sostenere che il governo ha imposto un "prendere o lasciare", minacciando le dimissioni. Un operaio torinese, di quelli che magari di politica afferrano poco ma la lima la sanno usare, sentenziava ieri: «Ci fosse stato il governo Berlusconi avremmo fatto 10 scioperi generali». Ecco il cortocircuito: il cambio di giudizio si avvera non per una maturazione culturale, quanto per una contingenza politica. Solo che il sindacato l'autonomia non la può praticare una stagione sì e l'altra no. Perché è l'identità fondante del sindacato. Assieme alla capacità di negoziare partendo dai dati di realtà. Quella che la Cgil non voleva veder e sulla flessibilità e che oggi si trova a dover accettare tra mille lacerazioni.
Un cambio brusco, nelle intenzioni, se si ripensa a quella sorta di "giuramento di fedeltà" all'esecutivo di centrosinistra, che fu stretto al congresso Cgil nel 2006. Per «riprogettare il Paese» con un patto dei «tremila giorni», lungo non una ma due legislature, dichiarò allora Guglielmo Epifani, presente Romano Prodi. Cosa di tanto grave, allora, costringe oggi il leader della Cgil a minacciare un cambio così profondo di atteggiamento? Solo lo "sgarbo" di una nota cambiata sul verbale d'intesa? In realtà, ciò che pesa veramente per la confederazione di Corso d'Italia è che i contenuti del protocollo firmato - seppure solo per «senso di responsabilità» - contraddicono l'intera strategia politica della stessa confederazione dal 2000 a oggi. È come se la Cgil siglando l'intesa, e approvandola a maggioranza nel suo direttivo, avesse ammesso: "Compagni, da quasi un decennio abbiamo sbagliato tutto, opponendoci a provvedimenti che invece erano positivi".
Per comprenderlo sono sufficienti due esempi. Il primo è quello dei contratti a termine, sul quale si determinò il primo accordo separato dopo un decennio di unità sindacale. La Cgil, infatti, nel 2001 non volle firmare l'avviso comune di sindacati e imprese, trasformato poi in decreto dal neonato governo Berlusconi. Riteneva che la liberalizzazione fosse troppo ampia. In particolare riguardo alle causali in base alle quali è possibile stringere contratti a tempo determinato. Oggi, per questo strumento, nel protocollo non è prevista l'introduzione di particolari causali, ma solo misure (ragionevoli e auspicabili) per contrastare la reiterazione all'infinito dei contratti temporanei.
Il secondo esempio, a ncora più clamoroso, è la legge Biagi. Osteggiata a suo tempo in maniera addirittura feroce, con tre scioperi generali, oggi viene confermata nel suo impianto. Sempre nel protocollo siglato da governo e parti sociali, infatti, della legge Biagi vengono cancellati appena 9 articoli (il 14 e dal 33 al 40) su 86 complessivi, si prevede un successivo esame di altri, si auspicano alcune modifiche e integrazioni. Si diceva (e non era vero) che la Biagi avesse introdotto 43 figure contrattuali, eppure se ne cancella solo una (il lavoro a chiamata), si discute sul futuro di un'altra (lo staff leasing) e si prevede qualche ritocco ad altre 3, confermandone così l'utilità. Nel frattempo, nello stesso protocollo, si loda l'apertura del mercato ai tanti soggetti privati e l'efficacia dell'integrazione tra servizi pubblici e privati. Si prende atto cioè della realtà: quella legge, assieme agli altri provvedimenti di flessibilizzazione, ha reso possibile la forte crescita dell'occupazione negli ultimi anni e aveva necessità semplicemente di essere ritoccata, in parte corretta e soprattutto completata. Il tutto, sancito ora con tanto di firma della Cgil. Ma la Biagi non era, negli slogan di quel sindacato, la "madre di tutte le precarizzazioni"? Non era la legge che avrebbe "bruciato un'intera generazione"?
Non basta, a sanare una contraddizione così forte, sostenere che il governo ha imposto un "prendere o lasciare", minacciando le dimissioni. Un operaio torinese, di quelli che magari di politica afferrano poco ma la lima la sanno usare, sentenziava ieri: «Ci fosse stato il governo Berlusconi avremmo fatto 10 scioperi generali». Ecco il cortocircuito: il cambio di giudizio si avvera non per una maturazione culturale, quanto per una contingenza politica. Solo che il sindacato l'autonomia non la può praticare una stagione sì e l'altra no. Perché è l'identità fondante del sindacato. Assieme alla capacità di negoziare partendo dai dati di realtà. Quella che la Cgil non voleva veder e sulla flessibilità e che oggi si trova a dover accettare tra mille lacerazioni.
«Avvenire» del 26 luglio 2007
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