A proposito di una recente polemica aperta dal segretario dei Ds verso il nostro giornale. Einaudi, Albertini e gli inviti al silenzio. Contrariamente alle allusioni di Piero Fassino lo «stare zitti» non è nella storia del «Corriere»
di Ernesto Galli Della Loggia
L’immagine della storia del Corriere della Sera che Piero Fassino ha cercato di dare nei giorni scorsi per polemizzare con l’attuale direzione del giornale e l’uso che a questo fine ha fatto di uno scambio epistolare del 1916 tra Luigi Albertini e Luigi Einaudi credo che abbiano prodotto non poca meraviglia in chiunque conosca anche per sommi capi la vicenda del foglio di via Solferino. Dalle parole di Fassino - davvero mal indirizzato da chi molto probabilmente gli ha suggerito la citazione einaudiana - sembra quasi che Einaudi, sollecitato dall’allora direttore del Corriere a intervenire su un tema politico caldo del momento, lo inviti alla cautela e al silenzio per non attirarsi le ire dell’opinione pubblica. Ammesso ma per nulla concesso che sia questo il vero significato delle parole di Einaudi - in realtà esse non sono altro che una banale considerazione sul carattere spesso inevitabilmente impopolare della verità, sicché a volte può convenire restare zitti -, la storia del Corriere di Albertini e della collaborazione ad esso di Luigi Einaudi ne sarebbero certamente la smentita più clamorosa. Infatti, come tutti sanno, se ci fu un carattere peculiare del Corriere albertiniano, una sua evidente cifra storica e giornalistica, fu non solo il parlare sempre fuori dai denti e, direi, una programmatica, ancorché sempre argomentata, mancanza di riverenza verso il potere, ma addirittura proprio il suo schierarsi costantemente in posizione assai critica nei confronti, sia degli equilibri politici dominanti, sia della classe dirigente che li incarnava. Durante i primi quindici anni del Novecento Albertini rese il Corriere il grande giornale europeo che è rimasto fino ad oggi facendone, come si sa, la maggiore voce di opposizione contro Giovanni Giolitti e quello che si chiamò il giolittismo, cioè il sistema di potere da lui costruito durante il suo lunghissimo periodo di governo. All’austero liberalismo conservatore di Albertini non piacevano la spregiudicatezza manovriera del presidente del Consiglio, l’uso politico che spesso e volentieri egli faceva degli apparati dello Stato particolarmente in periodo elettorale, la sua inclinazione ad accondiscendere alle richieste dei socialisti a spese del bilancio dello Stato, nonché quella che egli giudicava una sostanziale mancanza di iniziativa in politica estera. Il Corriere di Albertini diventò così un vero e proprio giornale-partito (altro che asettica neutralità e cautela!): praticamente la vera opposizione, in ambito costituzionale, alla «dittatura parlamentare» di Giolitti. Basti pensare al rilievo nazionale, all’eco nel Paese, che Albertini diede ai metodi violenti adottati da Giolitti per manipolare le elezioni in molte zone del Mezzogiorno attraverso l’azione dei prefetti e della polizia, quando nel 1913 mandò (caso unico, non riservato né prima né poi a nessun altro uomo politico) uno dei più prestigiosi inviati del giornale, Ugo Ojetti, a seguire la campagna elettorale di Gaetano Salvemini nei collegi di Molfetta e di Bitonto, dove lo storico pugliese, fiero avversario di Giolitti, venne fatto oggetto delle intimidazioni e delle aggressioni da parte dei «mazzieri» giolittiani, le quali furono puntualmente riferite con grande evidenza dal quotidiano milanese. Anche per effetto di questa coraggiosa linea politica, la terza pagina del Corriere si trasformò in quegli anni nel punto di raccolta della migliore, nuova, cultura italiana, che proprio in quel torno di tempo andava sempre più schierandosi su posizioni di antigiolittismo militante (si pensi a espressioni pur tra loro diversissime come il futurismo o l’idealismo crocio-gentiliano, ma anche alla Voce di Giuseppe Prezzolini). La collaborazione al Corriere di Gabriele d’Annunzio in occasione della guerra di Libia, che Albertini appoggiò - per settimane il giornale pubblicò pagine intere con le Canzoni della gesta d’oltremare del poeta, raggiungendo tra l’altro vendite vertiginose - è un’ottima testimonianza della capacità della direzione albertiniana di accordare cultura e politica, sensibilità per i gusti del pubblico ed esigenze commerciali. Nell’orientamento complessivo di quel Corriere il ruolo di Luigi Einaudi fu assolutamente decisivo. Lungi dal rappresentare, come potrebbe apparire dalla citazione di Fassino e dall’uso che egli ne ha fatto, una specie di freno dell’esuberanza di Albertini, Einaudi ne fu per venticinque anni un ispiratore-collaboratore e insieme, se così si può dire, uno strumento imprescindibile. Einaudi, infatti, fu colui che rappresentò instancabilmente la linea liberista del giornale, la radicale avversione ad ogni corporativismo e statalismo, ad ogni protezionismo, ad ogni monopolio, che denunciò il malcostume politico ogni volta prodotti da questi fenomeni, dando così voce ad uno dei temi più insistiti della polemica antigiolittiana del direttore. Fu soprattutto grazie ad Einaudi che il giornale divenne l’espressione organica di un ambiente economico come quello lombardo, allora legato soprattutto all’industria manifatturiera leggera e al commercio, e dunque incline più di qualunque altro in Italia al libero scambio e ai principi della concorrenza. Fu così che il Corriere acquistò un’autorevolezza e un’influenza politica sempre crescenti. Dalla guerra di Libia all’instaurazione della dittatura fascista nel 1925, quando Albertini fu estromesso dalla direzione e dalla proprietà, non vi fu in pratica svolta importante della vita del Paese che non lo vide in un modo o nell’altro protagonista. A cominciare dall’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale, fortemente voluto dal giornale, in certo senso a coronamento del proprio antigiolittismo, alla campagna a favore di Leonida Bissolati e contro i nazionalisti nel 1919, all’iniziale simpatia verso il fascismo per finire con l’opposizione senza quartiere nei confronti del nuovo regime. E tutto ciò fece, naturalmente, a volte con l’appoggio dell’opinione pubblica che lo seguiva, ma a volte anche contro. Non rinunciando mai però a quella assoluta libertà nella scelta dei temi, nell’impostazione delle notizie, negli obiettivi da perseguire, nella scelta dei collaboratori, e dunque non rinunciando a quella funzione in senso lato di guida politica del pubblico, senza di che non esistono autentici giornali ma solo fogli d’ordini o bollettini parrocchiali. Come si vede, contrariamente a quel che ha voluto dire Fassino con la mal consigliata citazione einaudiana, la linea che ha fatto del Corriere ciò che il Corriere è diventato, la linea di Albertini fatta costantemente propria da Einaudi, non è stata mai la linea dello «stare zitti». Al contrario. Naturalmente è fatale che ciò possa qualche volta dispiacere agli esponenti della politica. I quali però dovrebbero capire che se essi pensano, come pensano, che il sostegno di un giornale è importante, è solo perché quel giornale conta, e quel giornale conta solo se è autorevole: ma l’autorevolezza un giornale la conquista e la mantiene presso i lettori (che alla fine sono quelli che decidono di tutto) solo in un modo: mostrandosi libero da influenze esterne nelle proprie scelte, giuste o sbagliate che possano rivelarsi. La lezione di Albertini e del suo Corriere è questa, e solo questa.
Le citazioni di Einaudi e Albertini sono tratte dal volume delle loro Lettere (1908-1925), edito dalla Fondazione Corriere della Sera
Il leader: Luigi Albertini guidò il «Corriere della Sera» dal 1900 al 1925 e lo portò al rango di più importante quotidiano italiano
«Corriere della sera» del 29 luglio 2007
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