Il ciclismo dopato piomba nella crisi
di Alberto Caprotti
Uno al giorno. Puntuale come una cambiale. E con l'odioso corollario di non far più nemmeno notizia, tale è l'assuefazione a collegare marciume e ciclismo, a sopportare con rassegnazione una corsa non più a tappe, ma ad eliminazione. Il Tour de France anche ieri ha scoperto il suo dopato quotidiano, Cristian Moreni, professione gregario, 34 anni, due figli. In una foto d'archivio, datata 2004, erano sul podio con papà, fresco campione d'Italia. Sorridevano orgogliosi. Biondi. Puliti. Da oggi, probabilmente, il loro eroe dovrà spiegare qualcosa. Almeno ai suoi bambini - se ne avrà la forza e il coraggio - dovrà dire perché il Tour per lui è finito in un pomeriggio di luglio, quattro giorni prima del traguardo di Parigi. E sarà la corsa più difficile della sua vita.
Moreni dopo Vinokourov: testosterone o trasfusione, poco cambia. C'è ancora un farmaco, una pratica illecita, un sangue sbagliato a pesare sullo stomaco della bicicletta. E prima di loro Ullrich e Basso, e Landis, vincitore un anno fa del Tour che ancora oggi nessuno sa bene a chi assegnare. In compenso c'è un danese, Rasmussen, che spiana i Pirenei in maglia gialla inseguito dal sospetto, più forte di ogni avversario.
È un disastro, la bancarotta di uno sport che ha toccato il fondo e continua a scavare. Salvarlo sembra impossibile, fermarlo potrebbe essere inutile. Le tv tedesche, per protesta e sdegno, già non lo trasmettono più in diretta. Ma chiudere la saracinesca è la reazione giusta? Prima del Tour i corridori, tutti, hanno firmato un documento nel quale si impegnavano a restituire un anno di stipendio nel caso in cui fossero stati pescati positivi all'antidoping. Alcuni di loro hanno messo a disposizione il proprio dna, dicendosi pronti a qualunque sacrificio pur di mostrare pulizia e buona volontà. Altri, prima della tappa di ieri, hanno organizzato un sit-in di protesta contro il doping: tra loro c'era anche Moreni...
Cose da encefalogramma piatto, di uno sport oltre il coma, per il quale c' è già una proposta di eliminazione dalle Olimpiadi del 2016. Verrebbe voglia di dire basta, di farla finita prima. Ma sarebbe ingiusto. Per quelli che corrono usando solo le gambe. Ce ne sono ancora, probabilmente. Ce ne fosse anche uno solo, non meriterebbe di pagare per gli altri. Un anno, due: tutti fermi. Per ripulirsi, per pensare. Ma nessuno può garantire che poi, dalle ceneri, rinasca davvero qualcosa di più serio e di più credibile. Perché l'evoluzione del doping ha portato al paradosso: prima chi barava lo faceva nella speranza di farla franca, di schivare quei test di una volta, sporadici e insicuri. Oggi no.
Al Tour, come al Giro d'Italia, l'antidoping è una cosa seria, puntuale, evoluto, micidiale. Negli altri sport le farse continuano, nel ciclismo non si scappa, non si può pensare di uscirne illesi. E infatti c'è un "positivo" al giorno. Eppure continuano. Sanno che c'è un vigile che li aspetta dietro la curva, ma passano col rosso. Occorre chiedersi se sono matti, oppure stupidi. O più probabilmente solo vittime consapevoli, meccanismi di un ingranaggio impazzito che non permette di fermarsi, fedele alla logica aberrante secondo la quale senza sostanze illecite nelle vene non solo non puoi vincere, ma nel ciclismo di oggi che scala le montagne a 50 all'ora di media, nemmeno arrivi al traguardo.
È questa la vera droga da combattere, ed è mentale prima che fisica. Convincersi davvero che pedalando tutti più piano, un traguardo è ancora raggiungibile. Quello della dignità. Di uomini, prima che di atleti.
Moreni dopo Vinokourov: testosterone o trasfusione, poco cambia. C'è ancora un farmaco, una pratica illecita, un sangue sbagliato a pesare sullo stomaco della bicicletta. E prima di loro Ullrich e Basso, e Landis, vincitore un anno fa del Tour che ancora oggi nessuno sa bene a chi assegnare. In compenso c'è un danese, Rasmussen, che spiana i Pirenei in maglia gialla inseguito dal sospetto, più forte di ogni avversario.
È un disastro, la bancarotta di uno sport che ha toccato il fondo e continua a scavare. Salvarlo sembra impossibile, fermarlo potrebbe essere inutile. Le tv tedesche, per protesta e sdegno, già non lo trasmettono più in diretta. Ma chiudere la saracinesca è la reazione giusta? Prima del Tour i corridori, tutti, hanno firmato un documento nel quale si impegnavano a restituire un anno di stipendio nel caso in cui fossero stati pescati positivi all'antidoping. Alcuni di loro hanno messo a disposizione il proprio dna, dicendosi pronti a qualunque sacrificio pur di mostrare pulizia e buona volontà. Altri, prima della tappa di ieri, hanno organizzato un sit-in di protesta contro il doping: tra loro c'era anche Moreni...
Cose da encefalogramma piatto, di uno sport oltre il coma, per il quale c' è già una proposta di eliminazione dalle Olimpiadi del 2016. Verrebbe voglia di dire basta, di farla finita prima. Ma sarebbe ingiusto. Per quelli che corrono usando solo le gambe. Ce ne sono ancora, probabilmente. Ce ne fosse anche uno solo, non meriterebbe di pagare per gli altri. Un anno, due: tutti fermi. Per ripulirsi, per pensare. Ma nessuno può garantire che poi, dalle ceneri, rinasca davvero qualcosa di più serio e di più credibile. Perché l'evoluzione del doping ha portato al paradosso: prima chi barava lo faceva nella speranza di farla franca, di schivare quei test di una volta, sporadici e insicuri. Oggi no.
Al Tour, come al Giro d'Italia, l'antidoping è una cosa seria, puntuale, evoluto, micidiale. Negli altri sport le farse continuano, nel ciclismo non si scappa, non si può pensare di uscirne illesi. E infatti c'è un "positivo" al giorno. Eppure continuano. Sanno che c'è un vigile che li aspetta dietro la curva, ma passano col rosso. Occorre chiedersi se sono matti, oppure stupidi. O più probabilmente solo vittime consapevoli, meccanismi di un ingranaggio impazzito che non permette di fermarsi, fedele alla logica aberrante secondo la quale senza sostanze illecite nelle vene non solo non puoi vincere, ma nel ciclismo di oggi che scala le montagne a 50 all'ora di media, nemmeno arrivi al traguardo.
È questa la vera droga da combattere, ed è mentale prima che fisica. Convincersi davvero che pedalando tutti più piano, un traguardo è ancora raggiungibile. Quello della dignità. Di uomini, prima che di atleti.
«Avvenire» del 26 luglio 2007
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