Confronto tra lo scrittore triestino e il critico che ha ripercorso in un libro le testimonianze sullo sterminio degli ebrei
di Claudio Magris
«Solo i carnefici riescono a raccontare tutto l’orrore e il male di Auschwitz»
Il mondo, secondo un vecchio detto ebraico, può essere distrutto tra la sera e il mattino. Queste parole sono più antiche della Shoah. La loro ipotesi, in certo modo, era una profezia, perché con la Shoah il mondo ha subito un’irreparabile distruzione e non solo per quel che riguarda gli ebrei. Non si può pensarlo come prima, non è come prima; il senso e l’ordine delle cose, il rapporto fra progresso e barbarie, il significato dell’umano sono passati anch’essi attraverso i forni crematori. Dopo Majdanek, diceva Saba, a scandire una cesura radicale. Dopo Auschwitz, ha scritto Adorno, è impossibile scrivere poesia; se vogliamo vivere, dobbiamo smentire questa sentenza che infatti è stata smentita pure da poeti che hanno conosciuto quell’orrore irrappresentabile, come Celan, ma è impossibile scrivere poesia senza fare i conti con quel divieto, senza assumere nella poesia il peso di quella svolta mostruosa. Sulla Shoah esiste una vastissima letteratura: di testimoni, di sopravvissuti, di vittime, di carnefici, di storici, psicologi, antropologi. Con il suo volume La vendetta è il racconto (edito da Bollati Boringhieri) Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto una specie di Bibbia, di «libro dei libri» sulla Shoah - non «Olocausto», termine che egli giustamente rifiuta quale espressione retorica e falsificante, com’era accaduto di scrivere anche a me anni fa, che involontariamente nobilita in un alone di sacrificio religioso una bestiale e innominabile infamia. Consapevole che le parole sono inadeguate all’indicibile realtà dello sterminio - specialmente quelle di pur sincera partecipazione e condanna - Mengaldo fa parlare i testi, come ha fatto da grande filologo e critico con tante opere letterarie, e cerca di dire personalmente il meno possibile; in una recensione che è a sua volta un incisivo saggio, Gian Luigi Beccaria ha parlato di una «esecuzione dei testi» (come diceva Contini), di un loro ascolto che li fa parlare, come un coro diretto da un grande maestro che rende giustizia alle voci. Il libro è una summa di testi, colti nei loro temi essenziali; un’enciclopedia come quelle medievali che volevano contenere e riassumere il mondo, ma dedicata alla fine del mondo. Mengaldo si fa storico delle testimonianze, senza volerle spiegare storicamente; ciò gli è stato ingiustamente rimproverato, perché il senso del libro è proprio l’opposto di ogni storicizzazione, la quale fatalmente vuole spiegare, comprendere e dunque rendere in qualche modo razionale l’orrore. Egli analizza, classifica, distingue nella loro diversità i testi; quelli scritti dalle vittime immediatamente dopo la loro tragedia, quelli scritti tanti anni più tardi e le dichiarazioni di chi non si è sentito di scriverne; le testimonianze dei lager, dei gulag e delle altre prigionie inumane; la fame e il rapporto con il proprio corpo, la riduzione dell’individuo a mero corpo; e indaga il come più che il perché dell’abominio. Ha postillato un Inferno, dopo il quale è difficile immaginare un Purgatorio e ancor più un Paradiso; lo ha descritto pensando che tutto ciò verosimilmente accadrà di nuovo, nei confronti di altre vittime.
«La Shoah - gli chiedo - si è trasformata da storia criminosa a evento metafisico, a male assoluto (senza con ciò ovviamente attenuare la consapevolezza degli orrori subiti in altre circostanze da altre vittime, non certo meno degne di ricordo degli ebrei) e rifiuta di essere superata in quel giudizio storico che è, diceva Croce, "oltre il rogo" e dunque più sereno che furente; d’altronde è angoscioso che essa possa paralizzare per sempre ogni giudizio storico. Come è possibile mantenere il senso della sua assolutezza e contemporaneamente collocarla nel tempo, nel relativo per eccellenza?».
Mengaldo: «Piuttosto che di male "assoluto" o anche "radicale" io parlerei con la Arendt di male "estremo", che pur nella sua eccezionalità non esclude altri mali estremi, passati e recenti. Wiesel ha detto che la Shoah "trascende" la storia, ma credo che abbia torto; è invece nel vero a mio parere Yehuda Bauer quando sostiene che la Shoah, in quanto opera umana, può e deve essere compresa anche nelle sue cause come tutti i fatti umani; e solo così ci si può attrezzare un po’meglio perché non si ripeta. Quello che va evitato è piuttosto di premere il pedale (al modo ad esempio di Goldhagen) su una sola delle molte "cause" il cui intreccio, quasi moltiplicando il potenziale di ognuna, ha prodotto quegli effetti».
Magris: «Rispetto alle testimonianze dirette e vissute della Shoah, come si collocano le opere letterarie (intendo quelle autentiche non le spettacolarizzazioni)? È possibile un’invenzione fantastica che parta da Auschwitz?».
Mengaldo: «Naturalmente è possibile, anche se ad esempio uno dei testi più noti, Le armi della notte di Vercors, lascia sempre l’impressione di morbosità. Ma prendiamo il cinema: eccellente, e purtroppo poco nota, è La passeggera del polacco Andrej Munk, mentre io rifiuto totalmente il film di Benigni, minato da una contraddizione insanabile, quella tra quei fatti atroci e la pretesa di presentarli, non senza astuzia, nella chiave di una favola gestita da un clown. Ma tornando alle opere letterarie "d’invenzione", a me sembrano pur sempre preferibili quelle basate su una seria documentazione come La notte dei girondini di Presser - per non parlare dell’Istruttoria di Weiss. E solo queste sono utili allo storico».
Magris: «Primo Levi considera quasi inadeguate le proprie pagine rispetto a ciò che descrive, perché, dice, solo chi ha fissato in volto la Gorgone può raccontarla a fondo, ma chi ha visto la Gorgone non può parlare, perché non è tornato. Talora, infatti, certi libri scritti dai carnefici - quale per esempio, Comandante ad Auschwitz di Hoess - fanno toccare con mano ancora di più l’orrore proprio perché esso non è affrontato con l’umanità di un Levi o di altri, la quale, proprio opponendosi al male e in qualche modo vincendolo con la propria dignità, dice che esso non è assoluto».
Mengaldo: «L’opinione di Levi è inconfutabile, anche se si può aggiungere che ci sono rimaste testimonianze (ovviamente pochissime) di membri dei Sonderkommandos addetti alle camere a gas e ai forni, che forse hanno visto la Gorgone ancor più da vicino dei cosiddetti "sommersi" o dei "mussulmani". E a me sembra che l’importanza del Memoriale di Hoess, o delle dichiarazioni di Stangl (comandante di Sobibor e di Treblinka) riportate nel magnifico In quelle tenebre di Gitta Sereny, stia anzitutto nel fatto che costoro conoscevano per intero struttura e funzioni del "loro" lager, mentre le vittime-testimoni in genere ne hanno potuto avere solo una visione intensa ma parziale».
Magris: «Talvolta, è stato detto, si parla strumentalmente della Shoah per tacere di altri stermini, mentre invece ci ricorda, come scrive Sofsky da te citato, che quando c’è il terrore esso alla fine colpisce tutta l’umanità. Che ne pensi? E che pensi della tesi secondo la quale la Shoah non è la negazione del progresso storico che ha portato la modernità, ma è connaturata alla modernità stessa, a tutto ciò che ha prodotto il mondo in cui viviamo?».
Mengaldo: «Non so come si possa dire che si parla strumentalmente della Shoah per tacere di altri stermini. La nostra colpevole disattenzione a questi purtroppo non ha bisogno di coperture. Piuttosto io auspicherei che si tenesse sempre distinta la Shoah dalle questioni che riguardano lo Stato d’Israele. Quanto al resto, io mi trovo a pensare che la Shoah sia un preciso prodotto, non necessario ma conseguente, della nostra modernità, fatta di totalitarismi, razzismi, tecnologia e ideologia della medesima, apparati burocratici amorali, omogeneità delle masse ecc. Non va dimenticato che lo specifico della Shoah non è stato tanto la sua motivazione ideologica, quanto il suo carattere di sterminio tecnologico e amministrativo...».
Primo Levi, a lui e alla sua opera Pier Vincenzo Mengaldo dedica pagine importanti nel suo nuovo libro: «La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah» edito da Bollati Boringhieri, pagine 175, 12
«La Shoah - gli chiedo - si è trasformata da storia criminosa a evento metafisico, a male assoluto (senza con ciò ovviamente attenuare la consapevolezza degli orrori subiti in altre circostanze da altre vittime, non certo meno degne di ricordo degli ebrei) e rifiuta di essere superata in quel giudizio storico che è, diceva Croce, "oltre il rogo" e dunque più sereno che furente; d’altronde è angoscioso che essa possa paralizzare per sempre ogni giudizio storico. Come è possibile mantenere il senso della sua assolutezza e contemporaneamente collocarla nel tempo, nel relativo per eccellenza?».
Mengaldo: «Piuttosto che di male "assoluto" o anche "radicale" io parlerei con la Arendt di male "estremo", che pur nella sua eccezionalità non esclude altri mali estremi, passati e recenti. Wiesel ha detto che la Shoah "trascende" la storia, ma credo che abbia torto; è invece nel vero a mio parere Yehuda Bauer quando sostiene che la Shoah, in quanto opera umana, può e deve essere compresa anche nelle sue cause come tutti i fatti umani; e solo così ci si può attrezzare un po’meglio perché non si ripeta. Quello che va evitato è piuttosto di premere il pedale (al modo ad esempio di Goldhagen) su una sola delle molte "cause" il cui intreccio, quasi moltiplicando il potenziale di ognuna, ha prodotto quegli effetti».
Magris: «Rispetto alle testimonianze dirette e vissute della Shoah, come si collocano le opere letterarie (intendo quelle autentiche non le spettacolarizzazioni)? È possibile un’invenzione fantastica che parta da Auschwitz?».
Mengaldo: «Naturalmente è possibile, anche se ad esempio uno dei testi più noti, Le armi della notte di Vercors, lascia sempre l’impressione di morbosità. Ma prendiamo il cinema: eccellente, e purtroppo poco nota, è La passeggera del polacco Andrej Munk, mentre io rifiuto totalmente il film di Benigni, minato da una contraddizione insanabile, quella tra quei fatti atroci e la pretesa di presentarli, non senza astuzia, nella chiave di una favola gestita da un clown. Ma tornando alle opere letterarie "d’invenzione", a me sembrano pur sempre preferibili quelle basate su una seria documentazione come La notte dei girondini di Presser - per non parlare dell’Istruttoria di Weiss. E solo queste sono utili allo storico».
Magris: «Primo Levi considera quasi inadeguate le proprie pagine rispetto a ciò che descrive, perché, dice, solo chi ha fissato in volto la Gorgone può raccontarla a fondo, ma chi ha visto la Gorgone non può parlare, perché non è tornato. Talora, infatti, certi libri scritti dai carnefici - quale per esempio, Comandante ad Auschwitz di Hoess - fanno toccare con mano ancora di più l’orrore proprio perché esso non è affrontato con l’umanità di un Levi o di altri, la quale, proprio opponendosi al male e in qualche modo vincendolo con la propria dignità, dice che esso non è assoluto».
Mengaldo: «L’opinione di Levi è inconfutabile, anche se si può aggiungere che ci sono rimaste testimonianze (ovviamente pochissime) di membri dei Sonderkommandos addetti alle camere a gas e ai forni, che forse hanno visto la Gorgone ancor più da vicino dei cosiddetti "sommersi" o dei "mussulmani". E a me sembra che l’importanza del Memoriale di Hoess, o delle dichiarazioni di Stangl (comandante di Sobibor e di Treblinka) riportate nel magnifico In quelle tenebre di Gitta Sereny, stia anzitutto nel fatto che costoro conoscevano per intero struttura e funzioni del "loro" lager, mentre le vittime-testimoni in genere ne hanno potuto avere solo una visione intensa ma parziale».
Magris: «Talvolta, è stato detto, si parla strumentalmente della Shoah per tacere di altri stermini, mentre invece ci ricorda, come scrive Sofsky da te citato, che quando c’è il terrore esso alla fine colpisce tutta l’umanità. Che ne pensi? E che pensi della tesi secondo la quale la Shoah non è la negazione del progresso storico che ha portato la modernità, ma è connaturata alla modernità stessa, a tutto ciò che ha prodotto il mondo in cui viviamo?».
Mengaldo: «Non so come si possa dire che si parla strumentalmente della Shoah per tacere di altri stermini. La nostra colpevole disattenzione a questi purtroppo non ha bisogno di coperture. Piuttosto io auspicherei che si tenesse sempre distinta la Shoah dalle questioni che riguardano lo Stato d’Israele. Quanto al resto, io mi trovo a pensare che la Shoah sia un preciso prodotto, non necessario ma conseguente, della nostra modernità, fatta di totalitarismi, razzismi, tecnologia e ideologia della medesima, apparati burocratici amorali, omogeneità delle masse ecc. Non va dimenticato che lo specifico della Shoah non è stato tanto la sua motivazione ideologica, quanto il suo carattere di sterminio tecnologico e amministrativo...».
Primo Levi, a lui e alla sua opera Pier Vincenzo Mengaldo dedica pagine importanti nel suo nuovo libro: «La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah» edito da Bollati Boringhieri, pagine 175, 12
«Corriere della sera» del 15 luglio 2007
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