Dopo il benefico accordo sulle pensioni minime
di Gianni Manghetti
Dopo l'accordo sulle pensioni minime sembra - la cautela è d'obbligo - che sindacati e governo siano più vicini ad un'intesa anche sull'età pensionabile. Se il buon senso prevarrà la partita principale sull'eliminazione del cosiddetto scalone - la riduzione da 60 a 57 anni dell'uscita dal lavoro nel prossimo primo gennaio - dovrebbe chiudersi con l'introduzione del sistema delle quote, prevedendo, in luogo di un solo dato sull'età di pensionamento, la somma dell'età anagrafica e di quella contributiva. Con un progressivo innalzamento della quota nel tempo.
Mentre ci si augura che l'accordo sia raggiunto e che in ogni caso le tensioni si smorzino, vale la pena di riflettere su alcune questioni più di fondo che l'intera vicenda ha fatto emergere. In effetti, qualche riflessione dovrà pur essere fatta sulla partita giocata, sulla qualità del gioco, sui giocatori in campo.
Innanzitutto, in una continua gara allo scavalco delle rispettive posizioni, i sindacati e i partiti della sinistra radicale - e per quest'ultimi verrebbe solo da dire: Dio mio, dove mai siamo istituzionalmente arrivati! - hanno condotto la trattativa fino a portare il governo sull'orlo della crisi. Ma su quale questione di interesse nazionale si è fatto rischiare le dimissioni al governo o comunque al ministro dell'Economia? Ebbene, sull'eliminazione di uno scalone! Eppure, gli stessi sindacati lo avevano già fatto "passare" nella proposta Maroni, Ministro del Lavoro nel governo Berlusconi. Che cosa è accaduto per spingerli a tale capovolgimento di posizione? La risposta, a mio parere, va trovata nel loro indebolito rapporto con il mondo del lavoro. Essi sono saliti sul primo treno di passaggio, pur di riaffermare l'insidiato ruolo di intransigenti difensori dei lavoratori. Né sono stati aiutati dai partiti della sinistra che, dopo la sconfitta elettorale, sono montati sullo stesso treno volendone essere perfino i guidatori.
Ma è in questo modo che i sindacati - lasciamo perdere il futuro dei pa rtiti di sinistra che deve riguardare solo loro stessi - potranno recuperare un più pieno rapporto con il mondo del lavoro? A ben vedere, nella partita giocata contro il governo, vi sono state due grandi assenze. La principale ha riguardato la generale riforma dello stato sociale. Ci si è confrontati sull'adeguamento dell'età pensionabile - e per fortuna anche sulle pensioni minime - ma non già su un progetto di rinnovato Welfare, capace di tutelare gli interessi di una più ampia platea di lavoratori. Si pensi alla questione della non-autosufficienza, sulla quale vi è stato solo un assordante silenzio dei sindacati, del governo, dei partiti della sinistra radicale. Si pensi, ancora, ad un'organica politica per la famiglia sulla quale, al contrario, c'è stato un chiassoso tifo da stadio nel tentativo di fare un "golletto", in realtà poi trasformatosi in autogol, con i cosiddetti Dico prima, ora Cus. E, soprattutto, si pensi alla questione giovanile.
Infatti, se la prima grande assenza ha coinvolto sia il governo che i sindacati, la seconda ha riguardato esclusivamente quest'ultimi: ci si riferisce alla questione salariale dei giovani occupati. Stupisce che i sindacati non siano stati finora capaci di collegarla strettamente alla riforma dello stato sociale. Se lo avessero fatto avrebbero evitato almeno l'eccesso di enfasi politica data allo scalone. Stipendi di circa mille euro al mese - laureati o meno che i giovani siano, con contratti atipici o senza - aprono una voragine di problemi, tutti, in modo diretto o indiretto, connessi ai contenuti effettivi del loro futuro Welfare. Dalla loro pensione all'assistenza malattia, dal problema della casa a quello della formazione di nuovi nuclei familiari.
Mentre ci si augura che l'accordo sia raggiunto e che in ogni caso le tensioni si smorzino, vale la pena di riflettere su alcune questioni più di fondo che l'intera vicenda ha fatto emergere. In effetti, qualche riflessione dovrà pur essere fatta sulla partita giocata, sulla qualità del gioco, sui giocatori in campo.
Innanzitutto, in una continua gara allo scavalco delle rispettive posizioni, i sindacati e i partiti della sinistra radicale - e per quest'ultimi verrebbe solo da dire: Dio mio, dove mai siamo istituzionalmente arrivati! - hanno condotto la trattativa fino a portare il governo sull'orlo della crisi. Ma su quale questione di interesse nazionale si è fatto rischiare le dimissioni al governo o comunque al ministro dell'Economia? Ebbene, sull'eliminazione di uno scalone! Eppure, gli stessi sindacati lo avevano già fatto "passare" nella proposta Maroni, Ministro del Lavoro nel governo Berlusconi. Che cosa è accaduto per spingerli a tale capovolgimento di posizione? La risposta, a mio parere, va trovata nel loro indebolito rapporto con il mondo del lavoro. Essi sono saliti sul primo treno di passaggio, pur di riaffermare l'insidiato ruolo di intransigenti difensori dei lavoratori. Né sono stati aiutati dai partiti della sinistra che, dopo la sconfitta elettorale, sono montati sullo stesso treno volendone essere perfino i guidatori.
Ma è in questo modo che i sindacati - lasciamo perdere il futuro dei pa rtiti di sinistra che deve riguardare solo loro stessi - potranno recuperare un più pieno rapporto con il mondo del lavoro? A ben vedere, nella partita giocata contro il governo, vi sono state due grandi assenze. La principale ha riguardato la generale riforma dello stato sociale. Ci si è confrontati sull'adeguamento dell'età pensionabile - e per fortuna anche sulle pensioni minime - ma non già su un progetto di rinnovato Welfare, capace di tutelare gli interessi di una più ampia platea di lavoratori. Si pensi alla questione della non-autosufficienza, sulla quale vi è stato solo un assordante silenzio dei sindacati, del governo, dei partiti della sinistra radicale. Si pensi, ancora, ad un'organica politica per la famiglia sulla quale, al contrario, c'è stato un chiassoso tifo da stadio nel tentativo di fare un "golletto", in realtà poi trasformatosi in autogol, con i cosiddetti Dico prima, ora Cus. E, soprattutto, si pensi alla questione giovanile.
Infatti, se la prima grande assenza ha coinvolto sia il governo che i sindacati, la seconda ha riguardato esclusivamente quest'ultimi: ci si riferisce alla questione salariale dei giovani occupati. Stupisce che i sindacati non siano stati finora capaci di collegarla strettamente alla riforma dello stato sociale. Se lo avessero fatto avrebbero evitato almeno l'eccesso di enfasi politica data allo scalone. Stipendi di circa mille euro al mese - laureati o meno che i giovani siano, con contratti atipici o senza - aprono una voragine di problemi, tutti, in modo diretto o indiretto, connessi ai contenuti effettivi del loro futuro Welfare. Dalla loro pensione all'assistenza malattia, dal problema della casa a quello della formazione di nuovi nuclei familiari.
Ebbene, qualche riflessione autocritica il sindacato è pronto o no a farla, sulla sua crisi progettuale, sulla sua incapacità di proporre sacrifici a vantaggio delle future generazioni e non già solo di quelle attuali? O preferisce vedersi condannato ad essere sempr e più il "partito" dei pensionati e a portare avanti gli interessi, al momento, di 138.000 lavoratori, interessati allo scalone, domani di ancora meno?
«Avvenire» del 13 luglio 2007
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