05 luglio 2007

Il Presidente del dialogo e le «scosse» sulla storia

Napolitano, una anno sul Colle
di Marzio Breda
Quando lo hanno eletto, il 10 maggio 2006, c' è stato subito chi ha scommesso su una stagione di severa laconicità al Quirinale, con interventi diradati e senza gli scatti (euforici o ansiogeni, di supertutela o supercensura ai governi) dei suoi predecessori. Quel qualcuno profetizzava una presidenza della Repubblica chiusa nel silenzio imbalsamato di una volta, in coerenza con il temperamento freddo e sempre sotto controllo, diplomatico, protocollare e mai emotivo dell' uomo appena eletto alla massima carica istituzionale. Oggi, quanti avevano azzardato una previsione così incauta, dietro la quale si celava forse un auspicio, devono sentirsi sorpresi. Perché Giorgio Napolitano è stato al centro della scena ogni giorno, tutt' altro che legato al copione minimalista dei vecchi tempi o limitato dalle liturgie del cerimoniale. Al punto da provocare a tratti il mal di pancia ad alcuni politici, e più a sinistra che a destra, come testimoniò mesi fa un corsivo di Jena-Barenghi, sulla Stampa: «Napolitano in Spagna, Prodi in Giappone, Bertinotti in Sudamerica, D' Alema in Corea, Rutelli in India... Abbandonata a se stessa, l' Italia si rilassa». È anche da indizi d' insofferenza come questo che si colgono certe ricadute del primo anno di «attività» dell' undicesimo capo dello Stato. Il quale interpreta il proprio ruolo concedendosi interventi quasi quotidiani e su molti temi. Interventi netti e precisi, senza messaggi politici di secondo grado e senza sconti per nessuno. Neanche per la famiglia politica cui ha dedicato mezzo secolo d' impegno, ai più alti livelli. «Lavorerò per la concordia nazionale e per la serenità», aveva detto al debutto, quando la conta di Montecitorio si era attestata a 543 voti sul nome del primo post-comunista che approdasse a un simile incarico. Non era davvero il plebiscito che aveva portato il «tecnico» Ciampi sul Colle, obiettivo irraggiungibile all' indomani di un responso delle urne tale da spaccare in due il Paese. Eppure quell' elezione dimezzata non sembra un problema, per l' ex senatore a vita Napolitano, già da qualche anno fuori dalla mischia partitica. Lo dimostrano i provvisori risultati dei suoi sforzi: un clima politico in cui, dopo la rissa permanente in corso dal ' 94, si riaffaccia la voglia di mitigare l' asprezza del confronto. Un piccolo seme in risposta a quello che è un assillo del presidente e la missione del suo settennato: arrivare al reciproco riconoscimento tra schieramenti e all' affermarsi di una matura democrazia dell' alternanza, in modo da chiudere l' infinita transizione italiana. Se queste sono - secondo lui - le precondizioni per perseguire l' interesse nazionale, allora è chiaro che non poteva bastare una moral suasion applicata con timidezza, alla stregua di un dovere d' ufficio, ma serviva invece una costante azione di rincalzo. Una strategia del pungolo che persegue con sorvegliato stile britannico o tagliente e pignolo, quando gli pare che serva esserlo (e gli pare spesso). «So bene che i capi dello Stato non dotati di potere esecutivo rischiano d' esser tacciati di scarso o eccessivo interventismo, comunque non possono ridursi a silenziosi o inerti spettatori», ha confessato programmaticamente poche settimane dopo esser salito sul Colle. Uno sfogo rivelatore di chi, se pure non si compiace di dispiacere - com' è stato per un certo Cossiga - neppure se ne preoccupa, quando giudica suo dovere dare «una scossa» (lo slogan è suo) che vada oltre la politica contingente e sia utile a una riconciliazione fino ad oggi impossibile. A costo di cimentarsi in scomodi esercizi di revisionismo storico. Qualche esempio di questi nuovi muri caduti lo offrono alcune messe a punto di Napolitano sulla «guerra della memoria», motivo di eterna lacerazione. A Budapest, nell' anniversario della rivolta antisovietica, non si limita ad ammettere che i vertici del Pci (da Togliatti a lui stesso) furono «sordi alla battaglia», ma definisce «giusta» la posizione del nostro governo di allora, che era quello centrista degli avversari Segni e Tambroni. Un' autocritica nata sulla spinta di «un dovere morale e politico», sillaba. La correzione continua quando riabilita Giovanni Leone, altro antagonista che i comunisti sfrattarono dal Colle, al quale offre il «pieno riconoscimento di un operato corretto e rigoroso» e di una «prova estrema di responsabilità». Ancora: senza farsi velare gli occhi dal paradigma antifascista, ammette la congiura del silenzio sulle foibe («verità negata per pregiudiziale ideologica e cecità politica»), va a Cefalonia per la Liberazione (che vorrebbe fosse «festa di tutti», anche se i contemporanei incidenti di Milano negano l' ecumenismo) e rievoca il Sessantotto come una stagione che «aveva ragioni e forza vitale, ma pure schematismi e furori». Il plauso e alcuni malumori incassati finora si spiegano anche con sortite così. Che proprio per questo ventaglio di reazioni risultano più di garanzia che di parte. Mentre resta indiscutibile, o quasi, il consenso raccolto da Napolitano su altri fronti, dopo aver superato la prova del fuoco di una crisi di governo: 1) l'impegno in Europa, sua antica passione confermata da visite a Berlino, Parigi, Londra, Madrid, Strasburgo; 2) l'attenzione al patto sociale, con ripetuti appelli per il Sud e contro «i conati secessionisti», a favore di donne, precari, immigrati e per la sicurezza sul lavoro; 3) la concertazione come metodo di confronto per uscire da «un dialogo tra sordi» che a tratti sconfina «persino nell' odio» e arrivare a riforme condivise; 4) la sottolineatura della laicità dello Stato, pur riconoscendo «la missione della Chiesa e il prezioso servizio che offre alla Nazione», sottolineatura cui hanno dato un crisma di ufficialità gli incontri con il Papa; 5) il sostegno alle missioni dei nostri soldati all' estero, che «sono di pace» e «rispettano l'articolo 11 della Costituzione». Come si vede sono diversi i punti di continuità con Ciampi. Ma c' è anche qualche discontinuità. Una su tutte: la sordina fatta scattare sulla politica delle feste, con relativa pompa patriottica, cara all' ex capo dello Stato, il quale contava anche su questo per rafforzare l' identità degli italiani. Così, cancellato il concerto di Capodanno e quello del 2 Giugno, l' inno di Mameli, che ci eravamo abituati ad ascoltare spessissimo durante il ciampiano «viaggio in Italia», con Napolitano viene intonato solo se c' è un picchetto militare ad accoglierlo. E capita di rado.
«Corriere della sera» del 6 maggio 2007

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