05 luglio 2007

Canto d’amore incanto fatale

La leggenda delle Sirene
di Giorgio Montefoschi
Nel mondo antico, e poi per molti secoli a venire, fino alle soglie dei giorni nostri, non era inusuale imbattersi nelle Sirene, le protagoniste del fascinoso libro di Maurizio Bettini e Luigi Spina Il mito delle Sirene (Einaudi, pp. 268, 22), o quantomeno ascoltare il loro ineffabile canto. Figlie di una Musa o della Madre Terra, e del fiume Acheloo con ogni probabilità, queste creature ibride, per metà splendide fanciulle e per metà pesce o uccello, abitavano l’isola di Anthemoessa lungo le coste del Tirreno, ma potevano apparire ovunque: sorgere dai flutti più bui dell’oceano come dalle acque cristalline di una piccola baia siciliana alle falde dell’Etna, alle foci dei fiumi come ai confini del mondo. Il loro canto, divino, conteneva la morte. Infatti, era un canto talmente dolce e seducente, che chi si fermava ad ascoltarlo perdeva la ragione, dimenticava di mangiare e bere, voleva ascoltare, ascoltare soltanto, immergersi in quel canto, diventare quel canto, e pian piano in quel canto veniva risucchiato, consumato, distrutto. «C’è un promontorio dalle parti d’Italia - racconta Ulisse, con le parole di Maurizio Bettini, al ragazzo che ha incontrato nel suo ultimo viaggio - che si tuffa nel mare profondo. La roccia è cava e dentro ci risuona l’onda, pare una musica di flauti: è il mare più azzurro che abbia mai visto, la riva è verde come questi prati, piena di fiori colorati, ma tutto intorno marciscono cadaveri di uomini. Crani nudi, ossa spolpate, pelli che avvizziscono Circe mi aveva avvertito: non fermarti sulla riva delle Sirene! Loro cercheranno di stregarti, hanno una voce che incanta, ma tu vai oltre, non ascoltarle; perché, se ti fermerai, morirai, e anche il tuo corpo avvizzirà sulla riva del mare». Prima di Ulisse, le Sirene le aveva viste Orfeo, tornando con la nave degli Argonauti dalla Colchide, come nelle Argonautiche racconta Apollonio Rodio. Nel X libro della Repubblica di Platone, le Sirene appaiono quali custodi delle otto sfere celesti. Mentre il viaggio di Alessandro Magno era al termine, apparvero delle donne bellissime che vivevano nell’acqua come pesci. Non resistendo alla tentazione, i soldati del re macedone si calarono tra le onde e, stretti in un abbraccio che presto si sarebbe rivelato mortale, godettero dell’amore. Certamente, l’incontro di Ulisse con le Sirene è uno degli episodi più affascinanti non solo dell’Odissea, ma di tutta la letteratura classica. Siamo nel XII canto. È notte: di fronte al re dei Feaci, la sua famiglia e i suoi sudditi, Ulisse sta per terminare il racconto delle straordinarie avventure che, dopo l’incendio di Troia, lo hanno condotto fin lì: nelle sue parole, talvolta interrotte dal pianto, gli ascoltatori muti e trepidanti hanno riconosciuto il sentimento oscuro della colpa e le pericolose tentazioni dell’oblio, la desolazione e il coraggio, l’astuzia e il dolore, la speranza e l’assenza di ogni speranza, le infinite seduzioni della natura e la collera degli dei. Manca, a questo quadro che riassume il mondo, il canto divino che i poeti ciechi - se hanno purezza e fortuna - possono soltanto accogliere e, quale pallido riflesso di quella voce, restituire, magari. È il canto delle Sirene. Vediamo la scena. La nave è partita all’alba. Ulisse è stato ammaestrato da Circe: chi ascolta «ignaro» il canto delle Sirene va incontro a sicura morte. Viene il meriggio, il momento delle apparizioni; l’acqua è immobile; i marinai calano le vele. In quel momento, si ode la voce delle Sirene. «Vieni, glorioso Ulisse - dicono - ferma la tua nave, nessuno si allontana di qui senza aver ascoltato il suono di miele delle nostre labbra». Ulisse freme, poiché è l’unico a sentire questa voce, avendo tappato le orecchie dei suoi compagni con la cera; vorrebbe sciogliere le corde che lo legano all’albero; ma i compagni, ammaestrati, non ubbidiscono. La nave, dunque, va oltre. La sua vita è salva. Cosa cantavano le Sirene? Al termine del suo racconto, Maurizio Bettini fa dire a Ulisse che lui in quel canto ha riconosciuto le voci di tutte le donne che ha amato, insomma la voce dell’amore: un amore che però si trasfigura, va oltre il tempo e ci illude che la morte non esista. Poi, con un passaggio parecchio ardito, sostiene che chi ferma la sua nave e scende a terra - in altri termini: chi vuole porre se stesso a confronto con l’amore senza confini - non può che soccombere. Ne La mente colorata, Pietro Citati pone l’accento sulla conoscenza. Ulisse conosce, non è «ignaro», perché è stato istruito da Circe: «Non pretende di ascoltare indifeso il fascino mortale della poesia». Per «trarre gioia e sapienza dal canto delle Sirene», per godere di quel piacere totale dell’anima e del corpo, deve istituire una distanza: la distanza della mente, nella quale ricompone il canto divino, garantendo insieme la propria libertà. Le due interpretazioni, parimenti suggestive, non si contraddicono affatto. L’uomo non può competere con il canto divino, col «grido appassionato e ultraterreno» che, ci ricorda Luigi Spina, i marinai di Moby Dick credettero di ascoltare nella profonda oscurità che precede l’alba. Neppure può coltivare la stolta pretesa di decifrarlo. Tutt’al più può sentire la nostalgia di questo canto. E, magari, pensare che questa nostalgia sia il pallido riflesso di un’altra nostalgia: la Nostalgia vera, che ci riporta all’inizio di ogni avventura e di ogni racconto.
«Corriere della sera» del 6 maggio 2007

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