Il saggio di Eva Cantarella
di Vittorio Grevi
Bisogna rifiutare la punizione capitale come castigo
Sugli scaffali delle biblioteche certamente non mancano i libri sulla pena di morte, insieme a molti altri, spesso di contenuto prevalentemente giuridico, sulle funzioni della pena. Perché, allora, un nuovo volume in argomento, come quello appena pubblicato da Eva Cantarella, con un titolo emblematico (Il ritorno della vendetta, Rizzoli, pagine 190, 8,60), che già in qualche modo prende posizione di fronte al dilemma reso esplicito dal sottotitolo («Pena di morte: giustizia o assassinio»)? La risposta viene fornita fin dalle prime pagine dalla stessa Cantarella, nota studiosa di diritti antichi, già autrice negli anni scorsi di un non dimenticato saggio su I supplizi capitali in Grecia e a Roma. La quale, infatti, proprio dalle conclusioni di quest’ultimo saggio («Si uccideva per vendetta, si uccideva per eliminare il "mostro"») prende le mosse, animata dal desiderio di capire quale sia oggi lo stato della questione nel mondo moderno. E, più in particolare, negli Stati Uniti d’America, Paese a noi assai vicino per comunanza di ideali e di valori, dove però le esecuzioni capitali continuano, mentre le proposte di moratoria non riscuotono grande successo. Scritto con linguaggio sciolto e privo e di tecnicismi, talora addirittura con movenze volutamente semplificatrici di taglio giornalistico, il volume si caratterizza, al suo interno, per una sorta di continuo passaggio dal livello della odierna realtà statunitense al livello delle riflessioni filosofiche e giuridiche sulle ragioni storicamente addotte a favore e contro la pena capitale. Si passa in tal modo da alcuni stralci di cronaca del processo contro Charles Cullen, un omicida giudicato nel 2006 nel New Jersey, al racconto della morte di Socrate così come descritta da Platone, preceduto dalle riflessioni di Protagora e dello stesso Socrate sulla funzione preventiva e riabilitatrice della pena. Si passa ancora, per esempio, dalla posizione di Tommaso d’Aquino, favorevole alla pena capitale, alle forti riserve espresse da Tommaso Moro e da Andrea Alciato, fino alla grande svolta in senso abolizionista segnata dall’Illuminismo (da Beccaria a Voltaire). Ma subito si torna, con un rapido salto nel tempo, all’attuale situazione degli Stati Uniti, ed al dibattito sempre assai vivo sul punto, in quella che ormai è rimasta «l’unica democrazia occidentale ad applicare ancora la pena di morte». Riaffiorano in tale dibattito alcuni dei temi più classici nella storia delle «giustificazioni» addotte a sostegno della pena di morte. Riaffiora, per esempio, nel contesto americano di una diffusa tendenza alla «riconcettualizzazione» della pena e delle sue funzioni - a seguito della crisi delle concezioni ancorate alla funzione deterrente e riabilitativa -, il tradizionale indirizzo volto a considerare la pena soprattutto come «retribuzione» per il male commesso. Nel contempo, quasi a compensare il ritorno a questa più rozza fisionomia della pena essenzialmente come «castigo» e come «sofferenza», anche tra i fautori della pena di morte si aprono dispute sugli strumenti di esecuzione, così da individuare quello meno afflittivo per il condannato. E, sotto questo profilo, il passaggio dalla sedia elettrica, o dalla camera a gas, alla iniezione letale viene avvertito come una sorta di «modernizzazione» in chiave umanitaria (non diversamente, del resto, da ciò che erano state a suo tempo, in rapporto ai più crudeli metodi allora praticati, la cicuta per Socrate, o la ghigliottina durante la rivoluzione francese). Entro questa cornice è venuta a collocarsi, negli ultimi anni, in diversi Stati americani, una decisa enfatizzazione del ruolo attivo delle vittime (o dei loro parenti) nei processi destinati a concludersi anche con una condanna a morte: in sostanza, una sorta di «ritorno della vittima» sul proscenio della giustizia penale. È chiaro però che, in questo modo, si accentua il rischio che l’applicazione della pena - e della pena di morte specialmente - si colori sempre più del significato di «castigo», anche nel senso di «vendetta» inflitta dallo Stato in veste di vindice delle stesse vittime del reato. Siamo molto lontani dalle idee che già 2.500 anni fa, nella Grecia di Eschilo e di Socrate, avevano indotto a rifiutare una simile concezione della pena capitale, ed a maggior ragione dalle idee di Cesare Beccaria, che a metà Settecento aveva dimostrato essere la morte come pena «né utile né necessaria». Di fronte ai rischi di imbarbarimento che sempre più spesso ci provengono da oltre Atlantico, sarà bene, dunque, tornare a riflettere, muovendo dalle idee di fondo della civiltà giuridica e filosofica europea. E questo è l’auspicio, ma anche l’invito, che emerge chiarissimo dalle pagine appassionate di Eva Cantarella.
«Corriere della sera» del 7 maggio 2007
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