Dilaga dagli Stati Uniti l’offerta di video e software per conservare freschezza e agilità mentale. Ma sono efficaci?
di Franca Porciani
La moda della «neurofitness»
Da neuroscienziato di livello internazionale a cartoon di un videogioco che fa impazzire i sessantenni di mezzo mondo. È la storia dell’ormai miliardario Ryuta Kawashima, dell’università di Tohoku a Sendai, in Giappone; il primo ad aver avuto l’idea (e la disinvoltura) di trasferire sul piano commerciale gli esperimenti di potenziamento della memoria su cui ha lavorato per anni, all’inizio all’istituto Karolinska di Stoccolma. La casa giapponese Nintendo, reclutandolo nel 2004, ha fatto la sua parte e ora il giochino (che comprende esercizi di calcolo, memorizzazione di parole e brani da leggere a voce alta) con la «faccetta» di Kawashima, dopo aver spopolato in America, è arrivato in Europa. Il successo scaturisce anche dall’idea, decisamente intrigante, di un test preliminare che valuta l’età del cervello del soggetto e di uno successivo al training «giapponese» che rivela il miglioramento ottenuto (bel trabocchetto: la memoria ha riguadagnato una ventina d’anni? No; allora bisogna continuare). Ma il mercato dei software antiaging non si ferma al dottor Kawashima: ne esistono molti altri pubblicizzati (e venduti) da siti Internet come Braintrainer.com e l’evocativo Happy.neuron.com. Una ditta californiana, la Posit Science di San Francisco, è riuscita a piazzare i suoi programmi di brainfitness perfino nelle case di riposo (350 euro ciascuno, cifra comprensiva del Cd con 40 sessioni di giochi di un’ora e del Dvd che ne spiega il funzionamento). In Italia, a giudicare dal poderoso lancio pubblicitario, ci aspetta un successo analogo. Un bel giro di affari, destinato stando ai sondaggi di mercato, ad una ascesa inarrestabile, visto che la nostra sarà sempre di più una società di vecchi sani. Tutti vendono l’idea che sia possibile ringiovanire i neuroni e gli annessi circuiti cerebrali con esercizi «mirati» al computer o videogiochi, purché vengano eseguiti con regolarità. «Irresistibile, se fosse vero! - commenta Adriana Maggi, direttore del centro di eccellenza per lo studio delle malattie neurodenegerative dell’università di Milano -. L’idea che tenere allenato il cervello sia un ottimo antidoto al suo decadimento non è venuta solo a Kawashima. C’è una gran mole di studi che dimostra come l’esercizio mentale sia fondamentale per la salute dei neuroni. E in anni recenti le tecniche di neuroimaginig, come la risonanza magnetica funzionale e la Pet, hanno permesso di vedere quali aree cerebrali si attivano e qual è il loro metabolismo in relazione a situazioni di differente impegno intellettuale. Quindi, siamo sulla buona strada. Ma che il gioco del neuroscienziato giapponese, come gli altri, riesca a potenziare certe competenze e, addirittura, a "ringiovanire" il cervello è assolutamente da dimostrare. Una fuga in avanti: ciò detto, questi espedienti sono più divertenti delle parole crociate e male non fanno». La fortuna commerciale di Kawashima iniziò con uno studio (gli guadagnò un finanziamento di 500.000 dollari da parte dell’Agenzia giapponese per la scienza e la tecnologia) che, grazie alla risonanza magnetica funzionale, dimostrò come il calcolo veloce di alcune somme e la lettura a voce alta faccia aumentare il flusso di sangue alla corteccia prefrontale. Area critica perché integra una grande varietà di messaggi che provengono da zone del cervello fondamentali per le funzioni intellettuali. Maggior afflusso di sangue, attivazione; di conseguenza un funzionamento migliore del cervello. Sulla scorta di questa convinzione, Kawashima selezionò, testandoli su un gruppo di volontari dai venti ai settant’anni, i quindici esercizi più efficaci nel potenziare l’irrorazione di quest’area della corteccia. Poi di questi, calcolò un punteggio per ogni età ed ecco fatto, nacque il Brain Age, il giochino che lo ha reso famoso in tutto il mondo (in Giappone ne sono stati venduti 3 milioni di copie dal 2005 ad oggi) e col cui ricavato - dice lui - finanzia ulteriori ricerche antiaging. «Kawashima è uno scienziato che nonostante il successo commerciale continua a pubblicare studi - commenta Pietro Pietrini, psichiatra e neuroscienziato dell’università di Pisa -. Mi sento di affermare, però, che la base scientifica che dovrebbe supportare tutta questa storia, cioè il maggior afflusso di sangue alla corteccia prefrontale, non sta in piedi. Il fatto che un certo compito attivi un’area cerebrale non dimostra che questa funziona meglio, anzi può essere il segnale del suo affaticamento. Sempre ricorrendo alla risonanza magnetica funzionale, un nostro lavoro ha dimostrato che una persona giovane per eseguire una mansione attiva una sola area cerebrale, mentre l’individuo più in là con gli anni ne "accende" due, tre, quattro. In altre parole, il superlavoro del cervello sembra essere un segno di senilità, non di giovinezza, tanto meno di ringiovanimento». C’è, invece, chi crede che questi giochini di learning memory (imparare la memoria, letteralmente) siano un terreno di ricerca interessante. Ne è convinto Michael Merzenich, neuroscienziato dell’università della California a San Francisco, ma anche direttore scientifico della Posit Science, che ha pubblicato una ricerca in cui dimostra una qualche efficacia dei giochini antiaging su persone oltre i sessant’anni. Ma l’unico studio che ha aggiunto qualcosa di significativo in questo campo è quello pubblicato l’anno scorso sulla rivista dell’associazione dei medici americani, Jama, che ha preso in considerazione più di 2.800 persone sopra i sessantacinque anni che vivevano in case di riposo. Di queste una metà si è sottoposta ad un training intensivo (molte ore al giorno) di esercizi per potenziare la memoria e l’agilità mentale per cinque settimane, l’altra non ha fatto niente. Gli individui del primo gruppo alla fine dell’esperimento dimostravano una abilità decisamente superiore nello svolgere compiti complessi rispetto a chi non si era esercitato, ma soprattutto il miglioramento reggeva a distanza di cinque anni. Con quali conseguenze nella vita di tutti i giorni? Le persone «allenate» mentalmente avevano ritrovato la capacità di prepararsi un pasto o di fare autonomamente cose che sembravano avere dimenticato, anche solo parlare al telefono. Secondo Dorothy Bishop, neuroscienziata dell’università di Oxford, in Gran Bretagna, tenere in esercizio la mente fa bene, il Sudoku quanto le parole crociate, «ma la brain fitness computerizzata fa bene solo a chi vende questi programmi». Certo è che il dinamismo argina la vecchiaia e non solo quello intellettuale: gli studi stanno rivelando che ad una certa età l’attività fisica, meglio se fatta in compagnia, oltre a giovare al corpo e all’umore, migliora le capacità intellettuali. Con quale meccanismo? Non si sa.
«Corriere della sera» del 20 maggio 2007
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